“Ho seguito il sentiero del dolore mille e più volte.
Mi sono persa, scoprendo radure ingiallite, nascoste da grandi alberi
verdi e rigogliosi, che impediscono alla luce del sole di penetrare e
baciare la terra.
Mi sono addentrata nel tetro nascondiglio della natura, alla ricerca di
quella fessura, rivelata da un sussulto di vita.
Quel raggio indomito, che avrebbe nutrito il fiore ribelle che, testardo,
cresce dove tutto muore.
In tutti questi anni, sono tornata in ogni radura, mille volte, con le mie
speranze, consapevole che ogni forma muta, e che la luce avrebbe
trovato nuovi spiragli.
Ogni tanto ho raccolto un fiore, e mi è capitato di tornare a casa con un
mazzo dai colori e profumi sorprendenti.
Di notte no.
Seguire certi sentieri di notte è spaventoso.
Tutto tace, anche i grandi giganti dormono.
Il buio crea echi con il tuo respiro, e le ombre sembrano muovere i rami,
nell’intento di rapire quel pezzo di anima che lotta disperatamente per
trovare coraggio nel bagliore, seppur tenue, di un riverbero di luna.
Anno dopo anno, vorrei conoscere ogni palmo di quel percorso, e non
temere la radice che invade incontrollata il terreno e intralcia il mio
cammino.
Sono caduta, spesso; e ferita, incapace di muovermi, ho urlato,
sovrastando i brusii di una natura disinteressata.
Sono rimasta sola, accovacciata, inascoltata.
Apro gli occhi e penso a quel fiore che lotta, e osservo ogni segno
lasciato nel terreno che mi ha tradita.
Il dolore ha le sue forme.
Questa, oggi, è la mia.
Ho riempito il balcone di fiori.
Lontano da ogni radura immaginata dalla mia mente.”
(Mariig Valenti)
Mentre mi viene chiesto di narrare, reagisco a 40 anni di ricordi.
Metto in fila dati, e momenti, che non posso tralasciare.
Un accumulo di eventi, una scia di dolore e sofferenza lunga e densa di
percezioni infernali.
Rammento e capisco che la mia non è una esistenza banale, comune, semplice,
dolce.
Eppure ho imparato che l’esistenza non è una somma di momenti, bensì un
percorso, un cammino.
Ho affrontato la mia sentenza, ma oggi la ringrazio.
Mi sta indicando una via, che nel piano sottile porta alla salvezza della propria
anima.
Questa interpretazione mi ha lenito, e ha spento il livore che mi ha ammantata
per tanti lunghissimi anni.
La mia storia clinica inizia all’età di 10 anni, nel 1984, con la comparsa di un
dolore acuto al tallone del solo piede destro.
Il dolore è estremamente invalidante, e vengo regolarmente esonerata dalle
lezioni di danza e di attività sportiva a scuola.
Le lastre dell’arto interessato non danno nessun esito.
Il dolore va e viene, fino all’eta di 14 anni.
La mia vita scorre nella più grande normalità.
A 14 anni inizio equitazione (salto ostacoli), due volte alla settimana.
Spesso, un dolore sordo, invade la colonna, togliendomi il fiato.
La sensazione è quella della paura, perché non voglio smettere di montare, e
penso che la sollecitazione della colonna dato la natura dello sport che pratico,
ne sia l’unica responsabile.
Ancora una volta il dolore va e viene.
All’età di 17 anni inizio ad avere i primi disturbi alimentari, associati ad una
crisi adolescenziale complicata, dove l’immagine diventa tutto.
Tra i 17 e i 26 anni, la forchetta di peso varia da 47 a 99 kg.
Passo da anoressia a bulimia senza criterio.
Invento diete e mi sottopongo ad un calvario di rigida punizione ogni volta che
recupero il controllo sull’alimentazione.
Una forte crisi di identità e una ribellione contro il nucleo familiare peggiorano
la mia condizione psicologica.
Nessuno comprende il mio stato di salute, e la tesi più accreditata diventa quella
psicosomatica.
A 19 anni il dolore si sposta nel ginocchio destro, costringendomi ad usare le
stampelle. Visite ortopediche, artroscopia ed eco, ancora una volta senza esito.
I dolori iniziano ad essere sempre più invasivi, e il lasso di tempo tra un
episodio e l’altro si accorcia.
La mia psiche inizia a cercare una via di fuga.
Io sento il male, ma per tutti è psicosomatico.
Sono la classica adolescente problematica e i dolori intercostali rinforzano tale
tesi.
Negli Anni 90 andava di moda il Prozac, e quando l’infermità si propaga
ulteriormente, trasformandosi in sciatalgia cronica, io inizio il mio percorso
clinico con la pillola della felicità indotta.
Sono instabile, i miei dolori sono finti e mi faccio di antidepressivi.
Ho 22 anni e vivo a cavallo tra due paesi, due lingue, due vite.
Studio a Milano (IULM- relazioni pubbliche) e lavoro a Parigi.
La spasmodica ricerca di un posto nel mondo mi insegue e la mia vita è sempre
più sregolata.
Ingrasso, dimagrisco, trasloco, mi innamoro, trasloco ancora. Ingrasso
nuovamente, cambio università, dimagrisco, provo a studiare, lavoro, cambio
fidanzato, città, come in un circolo infernale, tutto da capo, senza mai vedere la
fine dell’incubo.
A 25 anni, i dolori ormai mi hanno invasa. I farmaci da banco* (Aulin) sono
l’unica via per resistere. Non sopporto più la vita.
(Il dolore acuto e persistente non diagnosticato porta a l’assunzione talvolta
eccessiva di farmaci anti infiammatori, perché è l’unico modo che il “malato
immaginario” ha per alzarsi e portare a termine la sua quotidianità)
Ad inizio 2001, sono account in agenzia pubblicitaria a Parigi, e la mia
condizione fisica è catastrofica. Non riesco più ad allacciarmi le scarpe. Non
dormo, non riesco ad alzarmi dalla sedia, fatico a camminare.
Mi vergogno molto, e cerco di nascondere il dolore come posso, conducendo
un’esistenza a 300 all’ora.
I dolori mi fanno impazzire, la rigidità non mi da tregua, ma nessuno mi crede,
essendo ormai il mondo convinto della mia condizione psicosomatica
avvalorata da una esistenza creativa ed agitata.
L’intuizione di un medico di famiglia, che richiede il test genetico HLAB27
(ovviamente positivo) e il controllo ematico ves/pcr (alle stelle) svelano la
causa di tutto quel male: è il 2001 e io ho la spondiloasrtrite anchilosante.
L’arrivo della diagnosi* è inizialmente una liberazione, ma l’impatto dei 17
anni passati a soffrire senza essere creduta, sono un cataclisma.
La rabbia, la collera, la frustrazione mi invadono.
Non sono più pazza. Non sono più autolesionista. Sono semplicemente malata
di Spondilite Anchilosante da 17 anni, ma nessuno lo ha scoperto. Mi
trasformo in una bomba di odio.
Mi hanno rubato 17 anni di vita.
Mi hanno etichettata, e ritenuta responsabile del mio male. Per non soccombere
ho indirizzato il corso della mia vita, ho fatto delle scelte, ferito delle persone,
perso degli affetti, degli amori.
Per 17 lunghissimi anni ho forgiato la mia personalità lavorando su equazioni
sbagliate.
(La persistenza di un sintomo orfano per anni può portare ad uno stato di depressione, oltre all’inasprimento della patologia stessa. Il lavoro di recupero che ne deriva è penalizzato dalla sfiducia e dallo sconforto, nutriti dalla derisione e dalla sottovalutazione da parte di chi avrebbe dovuto esserci d’aiuto. L’evoluzione della diagnostica da sola non serve. Ci vogliono intuizione ed empatia da parte del medico e pretesa da parte del malato di ottenere l’ascolto e le risposte che merita. La tempestività è purtroppo la chiave per una buona risposta alle terapie).
L’arresto brutale della mia vita, anche se con un nome sul male, mi annienta psicologicamente, e questo porta uno ulteriore squilibrio nella mia vita affettiva.
(posso riferirmi sia alla mia famiglia che ai miei compagni di viaggio)
Vengo ricoverata per via di una perdita di peso inquietante che suggerisce un
Crohn. La colonscopia la esclude.
La terapia con Salazopirina e Butazolidina non porta a grandi conquiste.
La mia vita lavorativa è completamente stravolta, essendo i dolori invalidanti e
i tempi di recupero proibitivi per un ruolo da Manager.
La SA, nel 2001 non è una malattia conosciuta.
Oltre a soffrire, a non trovare una terapia, nessuno comprende l’impatto che
questo male ha nella mia vita.
Nessuno mi istruisce sulla gravità, nessuno mi indica come gestire il dolore.
Il mio temperamento si adatta reagendo.
Nel 2002 mi sposo e torno a Milano.
Vengo inserita in reumatologia al Gaetano Pini, e seguita dal Prof.Marchesoni.
Le mie sacroilliache sono oggetto di studio in ateneo.
Il mio diventa un caso clinico.
Reazione al MTX- Sospensione SLZ. Reazione infusionale a IFX- (dispnea)
Reazione al cortisone intramuscolo- si procede per bolo.
Il mio morale vive incredulo, beato e curato dall’amore.
Seguo scrupolosamente le indicazioni del mio staff medico.
La compliance, per me, non è nemmeno in discussione.
Loro dicono, io faccio.
Sento vicinanza ed empatia.
Sono una paziente sorridente, disponibile, che non si lascia mai andare alla
disperazione.
La mia carriera ormai è un lontano ricordo. Non riesco a stabilizzarmi. I dolori
si muovono, e la notte ormai è sempre più un incubo.
Nel 2003 inizio Enbrel.
Sospeso nel 2005 per esordio uveite recidivante
(2004-2005-2006-2018-2019-2021-2023)
Nel 2005 arriva Humira.
La mia vita affettiva ormai sotto sopra, mi porta ad un ennesima partita da
giocare, e firmo il divorzio.
Ogni stress acutizza la bestia che mi abita.
Soffro, e il mio carattere ne risente.
Sviluppo un ego smisurato per portare avanti la mia vita e resistere al dolore.
Starmi accanto diventa un atto di fede.
Nel 2006 incontro il padre dei miei figli.
Il desiderio di gravidanza è impellente.
Nel 2007, con una parvenza di tregua, viene concordato un washout, in via di
una gravidanza programmata: nessuna casistica, nessuna letteratura, prevede
l’uso dei bio in gravidanza.
Sono gli 8 mesi più brutti della mia vita.
Solo Tachipirina e cortisone. I dolori sono indescrivibili.
Vengo ricoverata in patologia della gravidanza alla Mangiagalli di Milano.
Lo staff medico è straordinario. La mia bambina sta bene, io no.
Mi praticano anestesie locali lungo la colonna per evitare di inficiare sul feto.
Un via crucis portato a termine con determinazione e abnegazione.
Charlotte nasce con taglio cesareo, piccolina, di 2600 kg. Rimane in incubatrice
un paio di ore.
Mi viene tolto il latte e la mia bambina viene nutrita artificialmente.
Rimango in osservazione altri 10 gg.
Il ritorno a casa è impegnativo.
Humira si rivela inefficace, malgrado l’aumento di posologia.
Passo due anni con Fans e antidolorifici di varia natura.
Passo a Abatacept nel 2009, sospeso per inefficacia.
Rituximab sempre nel 2009, sospeso per reazione infusione alla prima
somministrazione (dispnea).
La mia voglia di vivere, e l’ossessione reattiva mi portano a desiderare il
secondo figlio. Smetto i fans e la gravidanza mi concede uno stato di grazia
inaspettato.
Mael nasce nel 2010 con taglio cesareo di 3100kg, sano.
Riesco ad allattarlo 3 mesi. Una gioia esclusiva, che mi nutre l’anima.
Il boomerang è spietato.
I dolori tornano con gli interessi.
Inizio la terapia del dolore, e la convivenza con gli oppiacei.
(Arriverò a 80 mg die, prima di iniziare un percorso di disintossicazione)
Nel 2011 ennesimo tentativo con Simponi, sospeso per dermatite eczematosa
recidivante con sovrainfezione batterica.
Nel 2012 si prova con Cimzia, sospeso per inefficacia.
Vivo con gli effetti indesiderati. Mi sento in colpa. Mi sento un peso.
Il mio corpo è oggetto di un sortilegio.
Le terapie non funzionano, è tutto un calvario, e i tentativi mi logorano in
maniera subdola, impattando sulla mia vita di coppia.
Accetto la richiesta di invalidità.
Ogni Bio è comunque sorretto da Fans, mio rilassanti, cortisonici, e anti
dolorifici.
Non si riesce a placare l’incendio.
La mia vita affettiva si sgretola.
Mastico pasticche dalla mattina alla sera.
Mi separo nel 2016.
Rimasta sola con due figli, mi prodigo per affrontare i drammi quotidiani.
Ma il fisico cede ulteriormente, e inizio la battaglia organica.
Nel 2017 vengo ricoverata per polmonite bilaterale non batterica.
La cachessia ormai è evidente.
Ma io non mollo.
E mi innamoro di nuovo.
“Una scala interrotta, a tratti vistosa, ingombrante, per scomparire del
tutto, come per lasciarmi senza appoggio.
Ti sento, lungo tutto il tuo sentiero, anche se rimani nell’ombra.
Mi hai donato quella concretezza, amara, che ho imparato a valutare.
L’iniziativa che vuole mostrarti al mondo, uscendo dall’anonimato,
troverà il rumore, il movimento, la vita, l’infinito e la forma.
Questo mi hai insegnato.
Io ti esporrò, perché sei la mia sofferenza.
Esporrò il rumore del lamento del mio dolore che infrange il silenzio.
Esporrò il movimento caparbio di una articolazione malata.
Esporrò la vita nel tormento.
Esporrò l’infinto, dopo il tuo e il mio tempo.
Esporrò la tua forma che riempie ogni vuoto dovuto
all’incomprensione.
E troverò me stessa, nell’orgoglio di un difetto reso straordinario.”
(MAriig Valenti)
Vengono successivamente provati Cosentyx e Taltz, entrambi sospesi per
inefficacia ed effetti collaterali (follicolite e polmonite)
Nel 2019 inizio Stelara, sospeso per inefficacia.
Si riprova SLZ, Neridronato, brufen come non ci fosse un domani.
Nel 2022 entro nell’ambulatorio dei compassionevoli e accedo ai nuovi jak
inibitori.
Attualmente sono al secondo, il primo avendo dato reazioni virali a catena.
Oggi la malattia è sotto controllo a fronte di un impegno olistico alleato alla
medicina tradizionale, e ad un percorso di crescita personale stravolgente.
La mia storia è caratterizzata da un temperamento molto forte e determinato.
Ho sempre pensato che l’amore fosse la risposta a qualsiasi dolore.
Malgrado i miei dolori invisibili, un piano terapeutico in salita,
l’incomprensione dell’astenia, e l’inevitabile deterioramento della mia
tolleranza, ho sempre reagito, amando la vita, amando i miei figli, amando i
miei compagni di vita.
“Mi stanno assassinando.
Una, due, tre, decine di coltellate, assestate a tradimento.
Nel fianco sinistro, nella scapola destra, nello sterno.
Mi stanno assassinando.
Sento la lama che fruga nella mia carne.
Conosco l’arma.
L’ho ripetutamente trattenuta, per non dissanguarmi.
Immobile, sento pulsare un corpo che cerca di ammantare un nemico
che non concede armistizio.
Mi stanno assassinando.
Gocce di vita mi rigano il viso.
Le sento scivolare verso le ferite.
Il rosso Cardinale tenderà al rosso Borgogna, e diventerà rosso
Magenta.
Mi stanno assassinando, ma io non riesco a morire.”
(Mariig Valenti)
La sofferenza porta ai confini del pensiero.
Convivere con una percezione costante del dolore fisico, ti spinge a
guardare oltre quei confini.
La ricerca del vuoto, di quella leggerezza sempre negata, ti conduce
nei meandri del concetto oscuro.
Le voci lontane, i sussurri impercettibili, i respiri famigliari,
interrompono l’ebbrezza del fascino delle tenebre.
Io sono pazzamente attaccata alla vita.
Flirtare con il nulla sottostante, mi propone una scelta, che si rinnova
ogni giorno.
Mi stanno assassinando, ma io scelgo di vivere
Nel 2019 inizio un diario pubblico con la volontà di creare una Community.
Spesso mi è stato chiesto di descrivere i miei dolori.
Attraverso gli anni ho affinato il racconto.
Dal catrame lavico che invadeva il mio corpo sono passata alle bombe
di chiodi che nutrivano gli incedi divampati in più parti del mio corpo.
Lontana dai colori porpora degli inferi, mi sono addentrata nel freddo
metallico della tortura, palesata sotto forma di una lima.
Una raspa che, inesorabile, lavora il mio osso, portandosi via la mia linfa.
E’ un dolore così atroce, che sorrido quasi soddisfatta mentre la mia
mente cospira l’ennesima definizione, priva di poesia.
Io argomento ogni giorno intorno a queste schegge ossee che si
annidano sotto la mia pelle.
Ho costruito una vita, mostrando il soldato che le raccoglieva, per
costruire delle dighe di fortuna.
Il dolore è una sensazione.
E’ uno stato di coscienza.
E non è uguale per tutti.
Eppure la descrizione e la quantificazione di quel dolore è uno dei
parametri imprescindibili per valutare l’andamento della malattia e
adeguare le terapie.
L’isolamento fa male, ma i gruppi di sostegno si popolano di storie
drammatiche che annientano e annullano il lavoro dei medici. Vi si incontrano
solo persone che seminano il terrore per via degli effetti collaterali
assolutamente personali dei farmaci. Persone che non sopportano i pazienti che
raccontano di stare bene.
Le associazioni di categoria sono spesso polverose, vecchie, burocratiche, e
poco coinvolgenti e sono molto impegnate sul fronte legale.
Essere di ispirazione e non di esempio, per dare modo a tutti di esprimere il
proprio potenziale.
Bisogna impegnarsi per fare rete, e educare il malato cronico ad una condizione
di disciplina a vita, pur tenendo degli standard di gioia necessari alla
collaborazione.
I punti focali della mia storia riguardano
- – la Diagnosi (17 anni per averla) e le conseguenze del ritardo con
interessamento assiale, periferico e organico - – l’impatto sulla mia vita sociale, affettiva e sentimentale (3 separazioni dovute
alle mie difficolta di accettazione e gestione) - – I problemi di intimità (il dolore e le terapie inibiscono la libido e nessuno ne
parla) - – Gli effetti collaterali delle terapie, gli effetti avversi (sono una donna e sono
anche vanitosa- le impetigini, le lesioni cutanee, la cachessia, la
deformazione della colonna a forma di punto interrogativo, non sono nostre
alleate quando si parla di sentirsi femminili e attraenti) - – La pratica sportiva (per montare a cavallo o praticare qualsiasi sport mi sono
imbottita di antidolorifici)- poi le rinunce e l’adattarsi a pratiche sportive
riabilitative - – La scoperta di alternative dolci e pratiche olistiche (agopuntura/fitoterapia/
omeopatia/osteopatia/ecc) - – La disponibilità economica (curarsi in modo complementare costa)
- – La compliance (sono sempre stata un paziente modello- mai discusso una
terapia o rifiutato- mi sono vaccinata per il Covid che ho poi fatto due volte,
di cui una in ospedale per problemi respiratori) - – La depressione (lo scoraggiamento, la frustrazione, la solitudine,
l’invisibilità) - – Richiesta di invalidità (ho tralasciato gli episodi pietosi delle commissionisono
passata dal 76% al 50% malgrado le richieste di aggravamento) - – Il sostegno della famiglia è discutibile, in quanto, ancora oggi, non mi sento
riconosciuta per quanto ho attraversato e vivo tutt’ora. - – La maternità (io ho smesso le cure, perché la letteratura non dava dati sicuriprendere
decisioni di questo calibro è difficile- si ha a che fare con valori e
senso di responsabilità) - – Rapporto con il mio staff medico (ho cambiato 4 reumatologi- il rapporto di
fiducia e di investitura è cruciale- io ho sempre preteso di capire, di farmi
spiegare bene-ho sempre chiesto e non ho mai avuto paura di discutere se
non venivo ascoltata. Ci vuole forza, carattere e faccia tosta, oltre che
coraggio e tenacia, il tutto condito di umiltà…) - – Presa di responsabilità (il cammino di crescita personale è imprescindibile
per qualsiasi malato- dare un senso a quanto ci succede per poter affrontare
nel modo migliore- la relazione spirito/mentre/corpo ormai mi è chiaraposso
rileggere la mia vita, e intravvedere cosa la malattia mi ha portato
come messaggio) - – Accettazione della cronicità (dolori e farmaci a vita) e della degenerazione
fisica - – La fotografia boudoir (la fotografia boudoir cerca di valorizzare il corpo
femminile e non ha paura di mettere in mostra anche i piccoli difetti che ogni
donna possiede. Non c’è giudizio, non ci sono canoni di bellezza impossibili
da soddisfare, ma solo l’intenzione di cogliere la vera natura della
protagonista e fare in modo che si senta bella, esattamente così com’è.
Qualunque donna può diventare la protagonista di un servizio di fotografia
boudoir. Lo scopo è liberare la propria femminilità dalle catene
dell’autocritica in un contesto elegante, sensuale ma allo stesso tempo
rilassato. Il boudoir, in questo senso, agisce come una sorta di terapia: è un
viaggio dentro se stesse per imparare ad accettare il proprio corpo, con i suoi
pregi e difetti). Guardare la mia schiena e regalarle poesie, mi ha liberata. - – Astenia e insonnia
- – Gestione energetica e rinunce progressiste!
Concludo l’esercizio con uno scritto che riassume il mio stato di salute oggi.
“Non devo avere paura
La paura uccide la mente
La paura è una piccola morte che porta all’annullamento
Affronterò la mia paura
Le permetterò di attraversami
E una volta passata, il mio occhio anteriore ne seguirà il cammino
E là dove sarà stata non sarà più nulla
Resterò io solamente”
(Dune)
Accettazione non è rassegnazione.
Non è sedersi avvilito e subire il proprio destino senza reagire, seguendo
un’indole remissiva priva di coscienza.
Non è erigersi e fronteggiare, respingendo fino allo sfinimento.
Accettare vuol dire fare un salto di qualità interpretativa.
Vuol dire abbracciare.
Vuol dire “ringraziare” scientemente un dolore indicibile e credere fermamente
che tutto abbia un senso:
quello di svegliarci e di acquisire il potere di cambiare.
Una contraddizione inaccettabile.
Riuscire ad accettare veramente vuol dire vivere scegliendo di credere nella
possibilità.
E quel potere di accettazione ti fa muovere le montagne.
Ti fa fare quel viaggio dentro di te che è la risposta ad ogni dolore.
Perché ogni maledetto dolore ha le sue radici nelle dinamiche intime e in quelle
interpersonali.
Osservare ogni nostro intento o ogni nostra motivazione all’agire, ci rende
partecipi e presenti, consapevoli e in possesso del potere di scelta.
E’ attraverso questa emancipazione dall’altro, grazie alla scoperta dei nostri
doni, grazie all’auto sufficienza che va coltivata quotidianamente, che noi
ricaviamo l’energia per affrontare il cambiamento.
Cambiare non è perdere ma è aggiungere.
Dire “io accetto”, vuol dire riverire quello che toglie luce, acceca, e rende pazzi.
Vuol dire compiere quel gesto insulso e contro natura, che è inginocchiarsi.
Per anni io ho resistito, incapace di sottomettermi.
Oggi so, che questo mio percorso mi ha allenata, ma soprattutto preparata alla
trasformazione.
“Il mistero della vita non è un problema da risolvere ma una realtà da
sperimentare
Un processo che non si può comprendere arrestandolo
Dobbiamo seguire il flusso del processo
Unirci ad esso
Fluire con esso”
(Dune)
Io ho sofferto tanto, alimentata da orde di dimostrazioni quotidiane.
Ho sofferto con il corpo e con la mente.
Isolata e aggrappata ad un sintomo che mi ha definita, nutrito da una sorda
manifestazione umana, la paura di accettare, io sono sopravvissuta.
Il giorno che accetti, ti trasformi.
E inizia la tua vera vita.