Mio marito Giovanni si è ammalato di demenza di tipo Alzheimer all’inizio del 2000.
La malattia durò 8 anni e mezzo, e abbiamo preferito assisterlo in famiglia appoggiandosi ad un centro diurno.
La malattia si era manifestata inizialmente con piccoli problemi:
- perdita di memoria a breve termine
- essere ripetitivo
- lasciare le chiavi attaccate alla porta
- avere difficoltà nell’allacciare la camicia
Dapprima gli episodi di questa natura si manifestarono in modo sporadico, tant’è che mio marito era riuscito a svolgere la sua professione di medico.
Poi pian piano subentrarono altri sintomi:
- era irritabile
- era sospettoso
- era ostile nei miei confronti
- iniziarono i primi disturbi alimentari e del sonno
- ricordava del passato sempre le stesse cose
- aveva difficoltà nell’orientamento temporale e spaziale
- aveva difficoltà nel riconoscere le persone, e successivamente anche i familiari
- aveva difficoltà nel comprendere e nel sostenere discorsi
- necessitava assistenza nel l’igiene personale e nell’abbigliamento.
Alla fine del 2003, in coincidenza del cambio del medico di famiglia e conoscenza della Dott.ssa Padula, peggiorarono i disturbi comportamentali e comparve anche il “vagabondaggio”, cioè il camminamento incessante di giorno e di notte, senza motivo apparente. Ho imparato che è meglio assecondare questo comportamento e non obbligarlo a sedersi o a fermarsi, in quanto crea nervosismo nel malato.
Alla fine della malattia mio marito camminava a stento e non parlava più.
In merito posso die che, sebbene il malato raggiunga deficit così invalidanti, continua a percepire le gestualità amorevoli, come sorrisi e carezze
Alle famiglie consiglio infatti di:
- rivolgersi con tono di voce basso,
- scandire le parole,
- mantenere il contatto visivo
- non contraddire i discorsi senza senso
- non frequentare luoghi affollati e rumorosi
- usare tovoglie a tinta unita.
COME MI SENTIVO
I sentimenti che animano il familiare mutano nel corso della malattia, inizialmente si prova smarrimento, incredulità e tristezza poi subentra la rabbia, la vergogna e l’imbarazzo e si tende ad isolarsi.
Quello che consiglio alle famiglie che vivono questa situazione è di non assecondare l’istinto ad isolarsi, ma di aver cura di sè cercando di ritagliare dei propri momenti di svago ovviamente senza il malato (una passeggiata, andare al cinema, mantener i rapporti con gli amici – i rapporti sociali).
Questi momenti servono a distendere la mente, a vivere meglio dopo i pesi dell’assistenza e soprattutto a non sentirsi soli.
COSA NON E’ ANDATO BENE
Dopo anni di malattia decidemmo di usufruire del cosiddetto “mese di sollievo” per riprendere un pò di forze mentali e fisiche. Per la prima volta mio marito restava fuori casa anche di notte.
L’esperienza purtroppo non è stata positiva a causa di molti errori che sono stati commessi nel soggiorno.
Come famiglia contavamo molto su questo aiuto.
COSA AVREI VOLUTO DAL MEDICO DELLE STRUTTURE PER MIO MARITO E PER ME
Dal medico delle strutture avrei desiderato:
- per mio marito maggiori attenzioni e partecipazione;
- per me l’instaurazione di un rapporto che permettesse di avere uno scambio di informazioni, sulla malattia in genere e sull’avanzamento di mio marito.
Questo potrebbe realizzarsi istituendo dei periodici colloqui.
COSA PUO’ SERVIRE PER MIGLIORARE LA QUALITA’ DI VITA?
Un aiuto concreto alle famiglie può essere quello il medico rappresenti in modo generale quali possono essere le fasi della malattia, quindi essere informati.
Essere consapevoli di come la malattia evolverà, aiuta ad essere pronti ad affrontare i problemi che si verificheranno nel corso del tempo.