Sono nata nel dicembre del 1965, ultima di 5 figli, in Germania ad Andernach, piccolo centro sul fiume Reno, che ho avuto occasione di rivedere solo alla veneranda età di 50 anni.
Nata di 7 Kg., sono comparsa sulla testata giornalistica locale come la bambina di origine italiana più grande del secolo.
Dopo pochi mesi fui riportata in Italia, nella regione originaria della mia famiglia.
Tutto bene finché il mio stato fisico non andò peggiorando di giorno in giorno, insieme all’inappetenza, pallore e debolezza comparivano e aleggiavano sempre di più sulla mia tenera età.
Iniziano i primi controlli ed ecco la diagnosi: Talassemia Major, il cui destino era inesorabilmente segnato, trasfusioni a vita finché vita mi fosse concessa.
In quegli anni per queste malattie non si superava la prima decade di vita.
Genitori presi dallo sconforto, avrebbero potuto sapere di essere portatori sani di una malattia genetica ereditaria, facendo banalmente un emocromo!
I primi 4 figli sani non avrebbero mai portato ad un sospetto diagnostico…
Inizia così la mia cura detta salvavita: trasfusione di sangue quando l’emoglobina scendeva.
Non saprei dire a quanto facevano scendere la mia emoglobina, so per certo che adesso per me è una condizione necessaria e vitale non farla scendere al di sotto dei 9,5 g/ml prima della trasfusione e la periodicità della cura viene stabilita in base alle mie necessità di vita quotidiana.
Forse ai tempi, data la scarsa conoscenza anche della stessa misurazione della qualità di vita dei pazienti, l’emoglobina la facevano scendere anche al di sotto dei 7 g/ml.
Comunque calvario si calvario no, le trasfusioni di sangue hanno caratterizzato la mia esistenza alla base di ogni condizione di vita.
All’età di 7 anni l’ingrossamento della milza, la splenomegalia, costrinse i medici a portarmi sotto i ferri chirurgici. Asportano la mia milza ed ecco che rimane il segno indelebile sul mio addome di un intervento che non mi consentirà mai di portare un costumino a due pezzi, ma fin dalla più tenera età costretta a nascondere uno dei tanti segni della mia malattia.
Che sarà mai un costume intero? Se non fosse che fino a 11 anni ho vissuto a Crotone una città sul mare che da giugno a settembre si possono sfoggiare costumi, pareo, ciabattine ecc.
Parliamo di prime frustrazioni.
Dopo qualche anno le continue trasfusioni di sangue fecero accumulare nel mio organismo il ferro, e cominciai ad avere il cosiddetto sovraccarico marziale patologico, che danneggiava i miei nobili organi: cuore e fegato, ma che inevitabilmente danneggio anche il mio sistema endocrino.
Fortunatamente negli anni 70 un’industria stava sviluppando una penicillina che aveva delle proprietà chelanti, ed ecco di come da cosa nasce cosa.
Si sviluppò e si mise in commercio questa sostanza chiamata Desferrioxamina a cui personalmente devo la mia esistenza.
Cominciai a chelare il ferro in eccesso dopo gli anni 70, prima con delle iniezioni intramuscolo dolorosissime e poi dopo qualche anno e grazie alla volontà della mia mamma di portarmi in visita in centri di cura più specialistici, scoprimmo che il farmaco sarebbe stato più efficace con una infusione lenta e continua somministrata sotto l’epidermide e di notte, con un microinfusore.
Iniziammo a pellegrinare per l’Italia alla ricerca di soluzione per il mio stato di salute.
Ferrara fu uno dei centri pionieri per la talassemia allora diretto dal Prof. Vullo, credo che tutti i miei coetanei e compagni di sventura almeno una volta nella loro vita andarono da lui a visita.
A quei tempi il centro di Ferrara ricoverava i malati e ospitava nella stessa camera gli accompagnatori.
Fu li che iniziai ad interrogarmi sulla mia malattia, il confronto con altri pazienti e altri genitori fu fondamentale per mettere le pietre miliari dell’accrescimento del mio percorso di consapevolizzazione, oggi chiamato “expertise”!
Nel 1977 la mia famiglia si trasferì a Varese una provincia del Nord Italia per permettere alla mia mamma di portarmi più comodamente a Ferrara.
Ma successivamente a Varese scoprimmo che c’era un reparto di pediatria che aveva in carico altri pazienti affetti da Talassemia e così cominciai a fare li inizialmente dei ricoveri che duravano circa una settimana, poi successivamente entrò in funzione fortunatamente il regime del DH.
Nonostante le mie assenze a scuola ero una discreta scolara.
Nel 1984 (18 anni) nonostante il mio sviluppo puberale non fosse ancora avvenuto mi ritrovai ad essere un’adulta in un corpo infantile, inizio la mia avventura nel mondo del lavoro.
Non fu facile, le discriminazioni, le beffe dei colleghi poco sensibili mi accompagnarono per un po’ di anni, ma fortunatamente all’interno dell’ufficio trovai anche delle colleghe adorabili che mi presero sotto la loro ala e oltre ad aiutarmi ad inserirmi nel mondo del lavoro, mi dettero tanto in affetto, stima e cordialità (per sempre rimarranno nel mio cuore Gabriella ed Adriana).
Finalmente il Prof. Negri della pediatria di Varese si accorse di questa bambina adulta e mi fece inviare da una endocrinologa a Pavia, Dr.ssa Cisternino che mi prese in carico e mi diede la terapia sostitutiva ormonale per indurre il mio menarca, ormai non raggiungibile spontaneamente visto il danno all’ipofisi e ipotalamo dovuto al sovraccarico di ferro.
Che dire della vita sentimentale un totale disastro nell’età adolescenziale anagrafica…
I primi amori arrivarono dopo i 25 anni, l’ostacolo era sempre superare … “glielo dico o non glielo dico che sono malata di talassemia?”
Una volta detto e che arrivava notizia anche ai genitori del prediletto iniziava il terrorismo psicologico dei genitori ed ecco che arrivavano le prime sconfitte amorose, il proprio figlio non avrebbe potuto stare accanto ad una persona malata perché da li a poco sarebbe morta!
Indubbiamente era la verità che predominava a quei tempi, come colpevolizzare queste persone se non prendersela con il proprio destino di malata?
Nel tempo le cose hanno preso una piega diversa.
Ho rafforzato la mia personalità e selezionato le mie relazioni.
Il rapporto con i medici è cambiato, sono una paziente che ha bisogno di risposte esaustive, quando non ci sono, la mia idea è troviamole insieme.
La ricerca clinica migliora i suoi risultati grazie all’osservazione clinica nel tempo dei pazienti e i loro outocomes, per questo ogni paziente merita di essere ascoltato e ogni sua manifestazione interpretata.
Ci sono ancora molti bisogni nascosti che devono essere portati alla luce per essere considerati dalla ricerca scientifica.
Molte volte prevale l’interesse scientifico, ma è qui che dobbiamo mediare.
Ho imparato ad aiutare me stessa e gli altri oggi sono una paziente consapevole che ha un ruolo attivo anche nel volontariato, rappresento nella mia regione circa 450 pazienti, e sono stata parte attiva di progetti che hanno interessato la comunità dei malati rari, partecipo nei percorsi di empowerment nella ricerca, nell’assistenza … niente su di noi e senza di noi…
Non si può parlare di ricerca nel paziente senza che lo stesso non sia consapevole del suo ruolo nella ricerca.
Vita privata:
dopo circa 30 anni di onorata carriera professionale, ho dato spontaneamente le dimissioni per dedicarmi al volontariato.
Felicemente sposata con due gemelli di 8 anni.
Non potrei chiedere di meglio alla vita che essere una paziente affetta da talassemia.
La malattia mi ha insegnato a vivere.
… della teoria della Resilienza? Direi che nella pratica sono un esempio calzante di adattamento alle intemperie inferte dal destino!