Mi chiamo Luisa, ho 44 anni, sono sposata e sono mamma di uno splendido bimbo di 10 anni e di
una neoadolescente di 15 anni. Sono infermiera dal 2016 e, dopo alcuni anni di lavoro in Medicina,
nell’agosto del 2020 entrai a far parte di un nuovo “piccolo grande mondo”: quello della Pediatria.
Avevo terminato il periodo di affiancamento e mi sentivo molto emozionata per questa nuova
avventura lavorativa, nella quale mi portavo dietro anche il mio “bagaglio da mamma”, oltre che
quello da professionista infermiera.
Proprio all’inizio di questo percorso, colloco il ricordo, ancora vivo, di un bimbo di circa un anno,
che era stato sottoposto ad un intervento chirurgico in elezione.
Ricordo benissimo il bimbo, a cui piaceva molto la musica, e sua mamma, una signora sempre
garbata e col volto stanco, ma di una stanchezza fiera di chi si spende al 100% per il proprio figlio
malato.
Ricordo che il bimbo era stato operato, l’intervento era andato bene e aveva appena iniziato a
rialimentarsi.
Ricordo che un giorno andai a lavorare, facevo il turno di notte e mi accinsi a prendere le consegne
dal collega del pomeriggio. Ascoltai le consegne, appuntando con attenzione ogni particolare.
Premetto che, all’età di circa un anno, mio figlio ebbe un problema di salute che, come tra poco dirò,
mi fu di ispirazione quella notte.
Ad inizio turno partii col mio solito giro alla volta dei miei piccoli pazienti, con rilevazione dei
parametri vitali, preparazione dei biberon del latte, terapie, controllo delle medicazioni e di
eventuali drenaggi, ecc.
Quando arrivai all’ultima stanza vidi questo piccoletto che piangeva. Piccolo cucciolo.
Convenimmo con sua mamma che forse era ora di bere un po’ di latte. Andai a prepararglielo e
tornai a portarglielo.
Entrai in camera. Poi mi fermai, poggiai il biberon su un tavolo e mi avvicinai al letto del piccolo
paziente. Il bimbo piangeva e stava male. Era un pianto inconsolabile.
Non era sorridente come lo avevo visto il giorno prima. Non stava semplicemente piangendo ma si
lagnava sommessamente, poi piangeva, poi si sforzava col faccino rosso, poi “frignava”, insomma
pensai che forse che c’era qualcosa che non andava e forse quel pianto non era una semplice
richiesta di cibo ma forse c’era qualcosa di più, forse aveva dolore ma lui era troppo piccolo per
spiegarmelo, comunque la cosa non mi convinceva. Posai la mano su quel minuscolo addome ed
ebbi un deja vu: ritornai col pensiero a quella volta in cui mio figlio piangeva in modo inconsolabile
e aveva l’addome molto teso. Nel 2014 a mio figlio era successo un episodio simile, che mi aveva
portato a precipitarmi in pronto soccorso e successivamente fu operato.
Pensai che il latte non sarebbe stato assolutamente il rimedio ideale in quella situazione, anzi,
avrebbe potuto dargli ancora più fastidio in quel preciso momento. Avevo bisogno di prendere un po’
di tempo, di capire, di ascoltare quella mamma, senza fretta, così come avrei voluto essere
compresa io, come madre, se mi fossi trovata in quella situazione.
“Signora, per piacere, attenda un attimo a dargli il latte, vorrei parlare un attimo col medico di
guardia, poi al massimo glielo ripreparo, non si preoccupi” – dissi alla madre, con decisione, poi
telefonai ai medici di guardia che vennero subito a visitare il piccolo.
In quel momento mi sentivo preoccupata per il piccolo ma contemporaneamente pensai che
bisognava dare sostegno anche alla madre. Mi sentivo, inizialmente, anche impotente e provavo
dispiacere per il piccolo che soffriva ed empatia verso quella mamma perché sapevo quello che
stava passando, conoscevo bene la sua preoccupazione, conoscevo bene quell’ansia, ansia perché il
tuo bambino sta male e non sai il perché, come mamma puoi soltanto attendere. Come infermiera io
invece potevo, anzi, dovevo agire con decisione e le “armi” che avevo a disposizione erano le mie
conoscenze, competenze e il mio saper essere tradotti con il mio agire professionale, con il mio
telefono di reparto, col paracetamolo pronto non appena il medico mi avesse dato l’ok, col prendere
l’ecografo.
I nostri medici lo visitarono meticolosamente, auscultarono quel pancino con precisione, fu eseguita
un’ecografia dell’addome e tutto si risolse velocemente e nel migliore dei modi.
Se adesso ci ripenso, sono contenta di non aver dato meccanicamente il latte a quel bimbo quella
notte. Sono contenta di non aver agito in maniera frettolosa. Sono contenta di aver dato ascolto a
tutti i miei sensi, ricordi, conoscenze, competenze di infermiera e di madre io stessa. Quella notte
frenetica, alla fine, mi sentii stanca ma sollevata al tempo stesso, fui contenta per aver fatto per bene
il mio dovere. Fui soddisfatta di aver capito che in quel momento stava soffrendo e col mio agire
professionale contribuii a farlo stare meglio.
Circa un anno fa ho rivisto quel bimbo e sua madre. Erano tornati in ospedale per una gastroenterite.
Istintivamente avrei voluto chiedere alla madre se si ricordasse di me ma poi ho preferito di no:
l’importante è che il ricordo sia dentro di me ed ora anche su queste pagine.
Modena, 29/04/2024
Luisa Tampone