Prima …momento depressivo
Sono depresso.
Lo psicologo dice che così non funziona.
Che non mi concedo nessuna possibilità, nessun futuro.
Che il messaggio che trasmetto al cervello è una sentenza “definitiva”.
Diverso se penso “sono in un momento depressivo”.
In questo caso il messaggio sottintende un inizio e, prima o poi, una fine.
Bene, allora facciamo che sono in un momento depressivo, un lungo momento depressivo.
Poi un mattino qualsiasi di questo momento depressivo apro gli occhi, e subito arriva la nausea per essermi ancora una volta svegliato.
La fatica infinita di dover vivere ancora una volta un altro giorno.
E quando finalmente riesco ad alzarmi, a guardarmi allo specchio, allora mando serenamente a fare in culo psicologo e momento depressivo, lungamente depressivo.
Non è che non capisco il significato e la differenza. oramai ne sono consapevole,
però quando ci vuole ci vuole.
Così sono qui con il mio “bel” momento depressivo.
Lo considero un ospite sgradito ma inevitabile, quindi sto cercando di capire come conviverci.
Studio e analizzo lo spiacevole compagno di viaggio fin nei minimi dettagli, nel tentativo di imparare a tenere io il volante.
Infatti, quando anche solo per un attimo è riuscito a prendere la guida lui, abbiamo rischiato l’incidente mortale con tanto di sequestro del veicolo e successivo immediato deposito dello stesso in SPDC (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura).
E’ un figlio di puttana intellettualmente infido, perfido, rapido e spietato come un cobra.
E’ impermeabile a tutto.
E’ un altro me dentro di “me” che fa veramente schifo, quando sono in forma.
Perché quando sono giù, invece, fa proprio paura.
Paura di quanto potrò stare nuovamente male, di dove vorrà portarmi, di come farò a resistere.
Anzi, se ce la farò a resistere e quanto durerà il “momento”.
Le sue intrusioni sono fulminee e spesso anche difficilmente riconoscibili.
Si confondono con un generico senso di stanchezza, di pesantezza, di eccesso di impegni.
Di: “Dai, oggi posso anche prendermela comoda e restare un po’ a letto, sono così stanco”.
Se non funziona e non ci casco allora ricorre all’autogiustificazione: “Oggi sto troppo male, non ce la faccio proprio, è meglio se aspetto che mi passi un po’ ”.
Così, se indugio anche solo un attimo a reagire, mi ritrovo piano piano, con leggerezza, quasi senza accorgermene, in piena crisi depressiva.
Incapace di tutto, cominciando proprio dal riuscire ad aprire gli occhi e scendere dal letto, chiuso in casa, in totale solitudine.
Invece di agire resto fermo a interrogarmi in modo ossessivo, demolendo tutto,
convinto, razionalmente e lucidamente, che quello che rimugino sia la vera, unica, possibile ”reale” realtà.
Contemporaneamente proseguo nel percorso della solitudine inattiva, perdendo il meccanismo mentale positivo dello stare assieme agli altri.
Del senso di appartenenza d’amicizia e della voglia di “fare” che nascono anche solo dal semplice essere presente.
Solitudine e depressione si alimentano a vicenda.
Assieme si nutrono di sensi di colpa e di autodemolizione.
Non rimane un solo briciolo di autostima.
Anche capacità e identità svaniscono.
Alla fine rimane solo lui, il momento depressivo.
E così… sono depresso, appunto.
Dopo …voglio aiutare gli altri
25 maggio 2009. Oggi, 25 maggio 2009, a due mesi da SPDC e a circa quattro anni dalla notte del sacco vuoto e del senso della vita inizio, come volontario, l’affiancamento nel servizio di accoglienza del Centro d’Ascolto della Caritas Diocesana.
E forse anche a tentare di riempire il famigerato sacco.
Per un ex seminarista oramai senza fede la cosa può sembrare strana.
E forse lo è.
Ma mi sono presentato, raccontato, ho chiesto e loro mi hanno accolto, ascoltato.
Infine hanno accettato ed io sento che qui cercherò di esprimere il meglio di me e di ritrovare sempre di più Francesco.
So in ogni modo per come mi conosco che il mio comportamento, anche se da non credente, sarà assolutamente e totalmente nel rispetto del vangelo.
Del suo umano e rivoluzionario messaggio di accoglienza, non solo materiale, ma dell’anima, intesa come essenza della persona.
Perché al di la della fede, del credere o non credere, nel leggere il vangelo ho comunque imparato tante cose che, quando concretamente realizzate, regalano alla vita di tutti rispetto, decoro e dignità.
Sarò concentrato nella considerazione dell’altro.
Riuscirò a vederne la fame interiore creata da solitudine e disperazione.
Perché io questo ho appena vissuto, da qui sono passato.
Ed è proprio così.
Piano piano scopro in me risorse ed energie che mi permettono, imparando di giorno in giorno, sempre più presenza, disponibilità, ascolto.
Per le persone che ho davanti, pur nel loro malessere che a volte è rabbia e vero e proprio sconforto senza speranza, il sentirsi visti, ascoltati, accolti, fa un po’ la differenza.
Regala un po’ di sollievo.
Così, nel cercare di esserci per l’altro, comincio a esserci anche per me stesso, a stare sempre meglio; ad avere sempre più stabilità, meno ansie, meno paure.
Quasi autunno 2009. L’estate è oramai al termine.
Dopo cinque mesi da SPDC, tre mesi di volontariato al Centro d’Ascolto e un mese in Francia del nord con Patrizia e Obrigado, sto abbastanza bene.
Ho anche ricevuto un invito a una “prima”.
Si tratta del video “L’equilibrista”.
Un progetto per pazienti psichiatrici, alla cui realizzazione ho partecipato per qualche mese, prima dell’internamento “volontario” in SPDC.
Inizialmente è un po’ strana l’atmosfera emotiva del ritrovarmi con gli altri: regista, aiuto regista e i pazienti con i quali ho collaborato e che sono state le ultime persone incontrate prima del ricovero.
Anche il rivedermi nel video mi emoziona e per un po’ sono in bilico tra gioia e malinconia.
Poi l’accoglienza di tutti e il video stesso mi spostano decisamente sul versante felicità.
Al termine della proiezione la coordinatrice, rivolgendosi a noi pazienti, chiede: “Adesso che il progetto video è terminato che programmi avete?”
Dopo qualche minuto mi esce una mezza battuta, e sorridendo dico: “Dipende da cosa hai da proporci”,
E mentre lo sto ancora dicendo realizzo che non è uno scherzo, ma una richiesta vera che, mascherata da sciocchezza, in realtà arriva diretta diretta dall’anima.
Ritorno immediatamente serio e in tutta fretta aggiungo: “Potrei avere un appuntamento per un colloquio?”
Per fortuna la coordinatrice è in gamba e mi coglie al volo con un sorridente “si”.
L’incontro mi apre un mondo a cui, forse per leggerezza, non avevo ancora pensato, nonostante l’avessi attraversato come paziente, il mondo della salute mentale.
Così inizio un secondo percorso, l’altra mia stampella che, in parallelo all’attività di volontariato al Centro di Ascolto, mi permetterà di riprendere l’equilibrio, di tornare a camminare.
Marzo 2011. I primi mesi sono stati d’attesa, perché non mi sentivo molto interessato ai vari percorsi di risocializzazione legati al tempo libero.
Stavo cercando altro e, fidandomi della coordinatrice, ho aspettato che arrivasse.
Come descrivere poi quello che ho ottenuto tra fine 2009 e oggi e come tutto quanto abbia contribuito a reintegrarmi nella vita?
La mia vita, recuperata tutto compreso.
Anche la malattia, la crisi assoluta, il suicidio, i trenta giorni di ricovero in SPDC.
Ci sono tornato in SPDC, nell’attuale sede presso il Polo Ospedaliero.
Ci sono tornato per riscattare il periodo più buio della mia vita.
Ci sono tornato perché sogno un reparto diverso.
Un’idea di salute mentale diversa.
Attenta alla persona e non solo al suo essere “malato”.
Ci sono tornato perché mi hanno invitato e perché anche tra chi lavora in SPDC c’è la speranza di un reparto diverso.
Ci sono tornato e continuerò ad andarci.
Come ex ricoverato che, consapevole del proprio percorso di vita e di malattia e del relativo sapere esperienziale acquisito, propone collaborazione agli operatori sanitari professionisti.
Come persona che pone se stesso e il proprio ruolo di cittadino volontario a disposizione di chi si trova in questo luogo.
Tappa spesso disperata di un drammatico percorso di malattia.
Ci sono tornato perché non ero solo.
Perché tra pazienti, familiari, operatori e cittadini si è costituito un gruppo lavoro di volontari.
Un gruppo dedicato a SPDC.
Nato nello spirito non di critica, recriminazione o rivalsa, ma tutto improntato sul confronto, sulla collaborazione, sul “fare assieme” per fare meglio.
Ci siamo tornati e continueremo ad andarci.
Perché a noi fa bene, al reparto fa bene, e abbiamo potuto provare l’emozione di vedere riapparire il sorriso sul volto di qualche ricoverato o di qualche familiare in visita.
Abbiamo appena fondato l’associazione di pazienti psichiatrici “Idee in Circolo”.
Associazione nata attraverso mesi di confronto tra pazienti, operatori, familiari, volontari e cittadini.
Un’associazione di promozione sociale che si propone come soggetto attivo nel perseguire l’idea di fare cultura sulla salute mentale intesa non solo come problema da “affrontare” e magari “emarginare” ma come “diritto” e “bene” di tutti da salvaguardare.
Poi ci sono state e ci sono le iniziative connesse a movimenti e associazioni regionali e nazionali.
Percorsi di condivisione e scambio tra diverse realtà italiane ai cui convegni è iniziata la mia personale formazione e crescita sul tema salute mentale e dintorni.
Crescita che quest’anno continuerà all’insegna della preparazione della settimana della salute mentale che, per la prima volta, verrà organizzata anche nella mia città.
Aprile 2011. A distanza di quasi due anni da quando ho iniziato l’attività di volontariato presso il Centro d’Ascolto della Caritas Diocesana, la situazione sociale è cambiata molto.
La crisi economica è peggiorata tanto da creare l’emergenza nell’emergenza e le persone cui rispondere sono in numeri non più sostenibili con le risorse attualmente a disposizione del Centro.
Quasi sempre, alle nove del mattino, appena aperta la porta e fatto entrare i presenti, siamo già in soprannumero e dobbiamo chiudere.
Poi per il resto della mattina io accolgo chi arriva e chiede di entrare.
Ed è un accogliere terribile perché in realtà devo respingere, rinviare.
Dare comunque risposte negative a persone che già ne ricevono continuamente dalla vita.
Il riuscire a farlo in modo “accogliente” subito mi è sembrato impossibile.
Una contraddizione in termini.
Ma “respingere accogliendo” è quello che cerco di fare tutti i venerdì mattina.
Mi capita anche di sbagliare.
A volte me ne rendo conto e riesco a recuperare.
A volte me lo fanno capire loro, con sguardo ed espressione che cercano gentilezza, ascolto, comprensione della solitudine dell’anima, anche se le parole raccontano solo di bisogni materiali.
Da settembre 2010 sono circa otto mesi che vivo l’intensità di questo ruolo emotivamente estremo.
Ogni tanto sento l’esigenza di condividere con gli amici del Centro d’Ascolto le situazioni più gravi.
Spesso ho bisogno di bere.
Come se dovessi sciacquare o rinfrescare qualcosa dentro di me.
Ma venerdì dopo venerdì continuo.
E sempre ogni venerdì è come la prima volta.
Inizio con un po’ di paura, l’ansia di non riuscire.
Poi alla fine c’è sempre la gioia serena dell’essere stato positivo.
Non ha più molta importanza se sto bene o se, come scrivo nella pagina iniziale, sono in un momento depressivo.
Perché il percorso iniziato dopo SPDC prosegue, e la convivenza con lo “spiacevole compagno di viaggio” diventa costantemente più accettabile.
Escludendo gli oramai rari attacchi di panico, cinque o sei nell’ultimo anno, e le ancor più rare mattine nelle quali non sono riuscito a reagire immediatamente, la gestione delle regole di convivenza con la depressione è diventata sempre più fluida.
E in questi giorni a chi mi chiede: “Come stai?” rispondo scherzosamente, ma anche con sempre più convinzione e consapevolezza “Sono felicemente depresso”.
Infatti considero questo percorso di consapevolezza il mio “guarire”.
E non ha importanza quanto tempo durerà perché nel frattempo io comunque “vivo”.
La vita ha sempre più senso e il sacco di questa mia vita è sempre più pieno.
Certo la malattia mi accompagna ancora e forse, in qualche forma, sarà sempre al mio fianco.
Magari riuscirà ancora a spezzarmi le gambe ma non potrà più impedirmi di continuare a camminare.
Perché adesso mi sono procurato le stampelle e sto imparando a usarle sempre meglio.
E l’equilibrio sul filo della vita è sempre più facile.
8 maggio 2011 – ore 23.47. Lo psicologo dice che il momento migliore per lavorare su se stessi è quando si sta bene.
Ha perfettamente ragione.
Peccato che quando si sta bene il lavorare su se stessi non sia proprio una priorità.
Comunque penso che gli darò retta, perché la voglia di continuare è ancora viva.
E’ una voglia nata assieme all’inizio del percorso di uscita dalla crisi.
Una voglia che mi piace molto perché ha portato “il cambiamento”.
Crisi… cambiamento…
Che avessero ragione i Greci?
Sì voglio dire quelli di una volta.
Quelli che alla parola crisi legavano il significato anche positivo di: “Necessità/possibilità di cambiamento”.
Guarda guarda, magari adesso mi tocca pure ringraziarla la mia “crisi”.
Già perché senza di lei è vero che non ci sarebbero stati SPDC e il “salto mortale” però non ci sarebbe stato nemmeno la possibilità di cambiamento.
E oggi invece di essere “felicemente depresso” forse sarei depresso e basta.
Bilancio difficile, anche perchè vista l’ora…
Ho deciso, i Greci avevano ragione e noi, nel latinizzarci e poi italianizzarci, ci siamo persi per strada, negli ultimi 2500 anni, qualche pezzo “significativo” quindi: “Grazie crisi”.
Inoltre a cosa mi serve un bilancio?
Patrizia continua ad adorarmi.
In più ogni tanto mi dice perfino che è “orgogliosa” di me e che mi “stima”.
E a essere sincero qualche volta me lo dico anch’io.
Poi c’è Emily d. e mi adora anche lei.
Emily d. è un cane femmina.
Sappiamo solo che è di origini calabresi e di non si sa quale incrocio di razze.
Ha una cicatrice circolare tutto attorno al corpo, come se fosse finita in una trappola per cinghiali ed era il cane più brutto, sfigato e traumatizzato del canile.
Patrizia ha insistito perché l’accompagnassi nella scelta.
Naturalmente il mio occhio clinico da depresso è caduto sull’unico cane che invece di correrci incontro abbaiando e scodinzolando se ne stava per conto suo e che, essendo anche malato, probabilmente sarebbe morto al canile un po’ per la malattia e un po’ perché nessuno l’avrebbe mai adottato.
Adesso sono tre anni che vive a casa di Patrizia.
La stiamo curando e nonostante la malattia sta abbastanza bene.
Non ha ancora superato i suoi traumi che, forse, l’accompagneranno per tutta la vita e spesso tiene la coda tra le zampe.
Però si sforza molto per vincere la paura e “fidarsi” e così mi serve da richiamo vivente all’essere tenace, al resistere, al continuare a mettermi in gioco.
Non è presuntuosa e invasiva come Dick però ogni tanto, quando lascio il monolocale e vado a casa di Patrizia, ci facciamo qualche bella chiacchierata.
Ho nel mio futuro il seguito di un positivo percorso di guarigione.
Ho una vita relazionale intensa anche se un po’ a senso unico.
Poi oggi mi hanno perfino detto che sono “terapeutico”.
Non è la prima volta che mi succede, ma è la prima volta dopo il ricovero in SPDC.
Qualcosa vorrà ben dire?
Ecco, senza accorgermene ho finito per fare comunque un bilancio e anche le due di notte.
Stai sereno e vai a letto Francesco.
E se proprio vuoi fare bilanci pensa alle due e quaranta della notte del dodici giugno 2005.
Anzi no, non pensare che poi ti vengono le malinconie per il povero Dick, per gali e per Sandy.
Eh sì, appunto, eravamo proprio una bella banda noi quattro!
Povero Dick.
Tu che eri riuscito a sopravvivere perfino alla frattura disassata della spina dorsale per poi finire causa uno dei tantissimi tumori che oramai sono tra i principali motivi di morte anche per voi bastardini.
E tu Sandy, come te la passi tutta sola?
E tu Gali, in Inghilterra?
Non importa Francesco la vita è cambiamento.
Adesso c’è Emily d., e domani, anzi, visto l’orario, oggi, la troverai ad aspettarti.
Con il suo sguardo un po’ perso.
La sua coda tra le zampe.
E però tutta la sua voglia di esserci… proprio come te…
16 maggio 2012. Come sono incredibili le risorse e le strategie che entrambi siamo riusciti a mettere in atto per tornare pienamente nella vita.
Oggi sono in sintonia con me stesso come mai lo sono stato in passato.
Sono in grado di apprezzare quegli spazi di vita che spesso mi erano sfuggiti causa il mio inseguire frenetico la vita stessa.
Amo e godo l’essenzialità e la leggerezza che mi sono permesse dal monolocale.
La quasi frugalità nel quotidiano cui sono costretto dai 750 euro mensili.
Frugalità che mi permette di sfuggire il consumismo spinto ed eccessivo e la stupidità connessa alle trappole della felicità sbandierate da mass media e pubblicità (anche se ancora di tre o quattro giornate all’anno di shopping in libreria non sono proprio riuscito a liberarmi).
Amo la “lentezza” che concede di sentire, nello stare nelle cose e nei rapporti con gli altri, l’importanza non tanto del fare (o peggio dello strafare) ma dell’esserci sempre e davvero.
Di recuperare così quella serenità che mi aiuta a non giudicare.
A sforzarmi di comprendere.
Di accogliere gli altri e me stesso senza essere troppo rigoroso sui miei e loro limiti.
Di pensare e sentire che nella vita quello che è veramente importante, alla fine, è “altro”.
Altro rispetto a quanto ho cercato molte volte di raggiungere a tutti i costi, con affanno, con superficialità e, spesso, senza alcuna consapevolezza del male che procuravo e che mi procuravo.
10 ottobre 2012. Oramai sono circa tre anni che vivo il mondo della salute mentale come volontario oltre che come paziente.
Gli impegni in associazione, nel gruppo di auto mutuo aiuto e nei progetti di promozione sociale, continuano a riempirmi la vita.
Sono i passi di un percorso attraverso il quale nel nostro piccolo, io e i miei amici, tentiamo di rendere migliore la nostra vita rendendo migliore anche la società nella quale viviamo.
Proviamo a farlo confrontandoci con uno degli spazi che a volte è ancora emarginazione, repressione, violenza e negazione della persona: quello della malattia mentale.
A promuovere la salute mentale come “diritto” e “bene” di tutti, cercando così di promuovere l’accettazione sociale del “diverso” in quanto sempre e comunque persona portatrice di diritti.
Ci muoviamo, richiamando le parole di Galimberti, “… per fare si che venga riconosciuta e accettata come normale condizione umana anche la follia, con i suoi sintomi e le sue caratterizzazioni.
Che non venga più affidato a una scienza medica, la psichiatria, il compito di trasformarla in malattia per poi eliminarla dal quotidiano sociale, ma che il quotidiano sociale si prenda carico anche di questa condizione umana, strutturandosi perché ciò sia reso possibile, e che la psichiatria si metta alla guida e al servizio di questo cammino.
Vogliamo che il percorso di territorializzazione e socializzazione dei servizi sia l’occasione per creare un laboratorio di nuove forme di relazioni umane e sociali, inclusive e non emarginanti.
Che cresca una società “civile” capace, salvaguardando individualità e soggettività, di diventare sempre più collettività, comunità solidale in grado di soccorrere se stessa nelle sue aree di deprivazione ed emarginazione.
Con un obiettivo primario: restituire a tutti gli esseri umani la dignità di vedersi sempre e comunque riconosciuti compiutamente come persone”.
Vogliamo che per tutti, compresi i malati mentali, vengano “semplicemente” realizzati e garantiti i diritti inalienabili della persona previsti dalla nostra Costituzione.
Per Galimberti questo era il sogno di Basaglia e, quando ho iniziato a trasformare il mio percorso di malattia e ripresa dalla malattia in percorso di vita, ho pensato che, forse, avrebbe potuto essere proprio bello fare un po’ mio questo sogno.
Vivere il resto della vita spendendomi, nel mio piccolo, per portarlo avanti.
Continuare, nell’accompagnare altri verso la consapevolezza dei propri limiti e fragilità, ma anche delle proprie risorse, a confrontarmi con i miei di limiti e fragilità.
Per poi riconoscere e usare le risorse per individuare e realizzare le strategie vincenti.
Quelle che mi hanno portato oggi a essere la persona che sono e che, in questo momento della mia vita, sono anche molto felice di essere.
Sono consapevole che non ho cambiato e non sto cambiando di sicuro il mondo.
Ma sono altrettanto sicuro di continuare a rendere migliore il mio di mondi e, forse, anche quello di qualche altra persona il cui percorso incrocia il mio.
E sono entrambi risultati che ritengo più che adeguati per dare dignità e significato alla vita.
Inoltre oggi, 10 ottobre, è arrivata un’altra delle conseguenze di queste scelte: sono stato dimesso dal Centro Salute Mentale Polo Ovest.
Non so se sono guarito.
Anche perché, per esperienza vissuta, so che la linea che divide follia e normalità è così sottile e fluida, che penso nessuno possa tracciare un confine preciso.
Tranne che usando come parametro la capacità di conformarsi all’appunto conformismo sociale.
So però di sicuro che mi sento come se mi fossi meritato la laurea con centodieci lode e abbraccio accademico per avere seguito una formazione di otto anni in depressione maggiore con gravi episodi ricorrenti e ideazioni suicidarie.
Questo ho raccontato alla psichiatra.
Che si è detta d’accordo, mi ha consegnato la laurea, cioè il foglio di dimissione, e mi ha salutato abbracciandomi calorosamente.