Ho indossato il braccialetto verde la prima volta il 20 febbraio 2022 e ogni giorno per i successivi 6 mesi. Quel braccialetto ha avuto tanti significati. Dalla frenesia di indossarlo il prima possibile per poter entrare in ospedale e vedere zio, alla paura durante le lunghe attese nelle sale d’aspetto.
Zio viveva con me e la mia famiglia da 15 anni, da quando mia nonna è mancata. Mio zio aveva un deficit cognitivo a cui nessuno aveva dato un nome, qualche difficoltà nel linguaggio, ma era in grado di esprimersi e farsi capire molto bene. Molto sicuro in quello che adorava e voleva. Penso che qualche caratteristico tratto autistico facesse parte di questa sindrome “senza nome”. La sua gioia di vivere e la grande socialità di zio gli ha permesso di ambientarsi molto bene a Modena e crearsi tanti amici. Ma erano solo qualcuno in più rispetto alle innumerevoli persone che lo conoscevano e ai suoi amici storici nel suo paese natale, dove ha unito generazioni di giovani con il suo buon cuore e la sua voglia di stare in compagnia.
I primi segni che qualcosa cominciava a non andare arrivarono nel 2019. Zio cominciò a dimagrire tanto e nel giro di poco perse molto peso. Iniziarono eventi di sincope e poi a seguire quei dolori alla pancia. Cominciammo una serie di esami specialistici, ma senza esito. Cominciò ad essere seguito da una psichiatra, e con lei una terapia di antipsicotici. Poi arrivò il covid e la pandemia. Il suo malessere non passava. Cominciava ad avere difficoltà nel mangiare, mancanza di appetito, e vomito non appena provava ad ingerire qualcosa. Fece qualunque esame: marcatori vari, colonscopia e gastroscopia a ripetizione, ecografie, pet, fino ad una inutile biopsia prostatica. Nessuno è stato in grado di fornire una diagnosi. Parole scritte in numerosi referti che non dicevano nulla. Quando lo portai alla prima visita da una gastroenterologa, restai basita dalla non-visita. Io seduta di fronte a lei a spiegarle tutta la storia, zio di fianco a me in piedi. Non alzò mai lo sguardo dal computer per guardare anche solo che faccia avesse mio zio. Senza nemmeno accorgersi di quella anomala e improvvisa magrezza che per me era il chiaro segnale che qualcosa non andava. Nemmeno una palpazione all’addome. Uscimmo da quello studio con un plico di esami da svolgere, solo carta. Quel medico non aveva nemmeno guardato il suo paziente. Non sapeva nemmeno come fosse fatto. Ero incredula e arrabbiata. Una infinità di esami e nessuno in grado di capire cosa stesse succedendo a zio. Tra le poche cose certe una anemia che col tempo peggiorava sempre più, di cui non si capiva la causa. Fino a Gennaio 2022 quando gli esami del sangue che ormai ripeteva ogni 2-3 mesi evidenziarono emoglobina a 2! Subito il medico di famiglia ci indirizzò al pronto soccorso. Dopo una serie di trasfusioni tornò a casa. Una settimana dopo, zio collassò. Emoglobina di nuovo bassa. Primo ricovero a Baggiovara: di nuovo trasfusioni e di nuovo esami che aveva già eseguito in quei mesi per cercare di capire la causa di questa anemia. Tempo di ristabilizzarlo e fu mandato a casa. Dopo una settimana zio collassò di nuovo. Secondo ricovero a Baggiovara tramite 118. Io e i miei cominciammo ad essere preoccupati e tesi. Iniziai a irrigidirmi e a innervosirmi. Parlammo chiaro con i medici: non avremmo accettato una nuova dimissione fino a quando qualcuno non ci avesse dato una spiegazione chiara. Nuovi esami: colonscopia, tac…tutto faceva sospettare una perdita ma nulla lo rilevava. Le condizioni di zio peggiorarono nei giorni con febbre, dolori fortissimi all’addome e finalmente un sospetto: una perforazione intestinale. Fu sottoposto ad un intervento più o meno urgente e ci trasferirono in chirurgia. Sospiro di sollievo. Sembrava andato tutto bene. 36 ore dopo, nel cuore della notte mi chiamarono dall’ospedale. L’anastomosi aveva ceduto e zio doveva essere operato nuovamente e questa volta sarebbe stato necessario ricorrere ad una stomia ileale. Un fulmine in quella notte. Io ero preoccupatissima per l’intervento. Zio era debole in quel periodo. Avrebbe retto un nuovo intervento? Andò bene, almeno così sembrava. Solo qualche giorno dopo scoprii che la stomia impacchettata a zio era stata fatta male, era difettosa ed era in parte ceduta. Senza riportarlo in sala, il chirurgo cercò di sistemargliela nel letto di degenza, con una anestesia locale. Passarono settimane e zio sembrava non riprendersi. Dormiva continuamente tanto da mangiare piccoli bocconi a occhi chiusi. Era sempre assopito e dopo settimane cominciai a pensare che questo non fosse normale. Mi era evidente che questo stato era causato da farmaci. Parlai con il medico di reparto di quei giorni, una dottoressa, dopo averla attesa e rincorsa. Era al computer e non mi rivolse nemmeno lo sguardo quando le parlai. Nel chiederle spiegazioni e quale terapia stessero somministrando a mio zio, ricevetti questa risposta “io l’ho sempre visto così” . Non mi sembrava possibile.
Chiesi di rivedere subito la terapia perché sospettavo si stesse esagerando con sedativi. Dopo qualche giorno zio cominciò ad essere più sveglio e collaborativo. Finita la degenza in chirurgia, passammo in geriatria per settimane e poi al PARE. Cominciò lentamente a riprendersi e a mettere i piedi giù dal letto. Iniziò un po’ di fisioterapia ma fu sufficiente poco esercizio per rimettersi a pieno sulle sue gambe. Cominciavano alcuni problemi con la gestione della stomia in reparto. Quella stomia era difettosa e il personale non era informato e non riusciva a gestirla. Ad ogni infermiere che incontravo, spiegavo come fare. IO! E spesso mancavano le scorte di dispositivi. Dovevo preoccuparmi IO che avessero le giuste scorte per il fine settimana o portarle da casa. Mi sembrava incredibile.
La dimissione sembrava vicina, ma la felicità fu subito smorzata dal risultato positivo al test covid. Mio zio aveva contratto il SarCov2 lì dentro. Non potevo crederci. Noi fuori eravamo attentissimi ai contatti, a non frequentare luoghi affollati e adottavamo tutte le misure per evitare in ogni modo di contagiarlo. Mascherina, permessi, braccialetti, temperatura, la barriera dei controlli all’ingresso e poi? Zio contrae il virus proprio in reparto!? Ero furibonda!!! Trascorsero 10 gg prima di rivedere zio. Isolato insieme ad altri del reparto, chiuso in camera e lontano da noi. Il 6 maggio finalmente zio uscì dall’ospedale. Eravamo felicissimi. Aveva la stomia da gestire ma ero preparata, avevo imparato e mi ero addestrata dallo stomista, avevamo tutto il materiale. Ero pronta e non mi importava. Volevo solo che ritornasse a casa.
La gestione della stomia era complessa ma ero attentissima a tutto: volume di liquidi, alimentazione, farmaci, peso. Seguivo tutto alla lettera in modo maniacale. Non fu sufficiente. Zio andò incontro a disidratazione, natriemia, e insufficienza renale. Iniziò a svenire sempre più spesso o a perdere di coscienza all’improvviso. Ci spaventammo parecchio. Contro ogni volontà, fu necessario chiamare il 118. E dopo nemmeno un mese zio fu ricoverato nuovamente a Baggiovara in gastroenterologia. Mio zio non uscì più da quell’ospedale. Eravamo nervosissimi, preoccupati, stanchi. I primi giorni non mancarono tensioni con i medici e gli infermieri. Nessuno sapeva gestire la stomia, non erano provvisti di dispositivi adatti, le continue perdite lasciate ore e ore gli procurarono irritazione e dolore. Un disastro. Anche lui si innervosiva. Tante volte sono corsa io a riparare al danno. Non sopportavo di trovarlo in quello stato di abbandono, sporco e nervoso., per cui preferivo occuparmene io. Ma perché io ero capace e loro no? Perchè così tanta superficialità? Perché io avevo capito come gestirla e loro no? Mi chiedevo. Eppure ame aveva spiegato tutto lo stomista. Col passare dei giorni zio si ristabilizzò. In mezzo a questo sconforto e, nonostante le incomprensioni iniziali, trovai un bravo medico, un internista, che capì il caso di mio zio, che seppe guardare zio con occhi diversi, ebbe una visione ampia della sua complessa situazione, e non circoscritta e focalizzata su un unico problema. Zio era un caso da trattare per più problematiche. Zio era uno di quei pazienti che tanti medici definivano “fragile”. Tantissime volte mi ripetevano questa parola e spesso l’avvertivo come una giustificazione, un alibi, a eventuali peggioramenti che potevano presentarsi, ad una lenta ripresa, ad un caso complesso, o forse per mettersi al riparo in caso di complicanze. Ho sentito ripetermi talmente tante volte questa parola, che ho iniziato a riflettere sul concetto di fragilità e al suo significato. Cosa significava “fragile” per un medico e cosa per un familiare?
Luglio: zio era finalmente stabile, ma ovviamente una stabilità precaria, garantita solo da un monitoraggio costante dei valori e intervento al bisogno. Era il momento di prendere una decisione: ritornare a casa, restare in una lunga degenza o ritentare l’intervento di ricanalizzazione. La stomia era di difficile gestione e gli causava troppi squilibri, oltre ai valori ematici completamente alterati che ormai aveva. Dopo la prima esperienza a casa, mi opposi al rientro a casa nonostante andassi contro il desiderio di fargli riassaporare l’aria di casa. Il medico era concorde con me. Era un’estate torrida e si prospettavano mesi a casa con temperature altissime che avrebbero aggravato la situazione. Ci confrontammo diverse volte e decidemmo di consultare il chirurgo. In tutti quei mesi sono stata la VOCE di zio. Riuscii ad organizzare un incontro con chirurgo, internista ed io. Nonostante le titubanze del chirurgo, si optò per tentare l’intervento di ricanalizzazione. Cominciarono giorni di attesa della data. Zio fu trasferito al PARE come appoggio momentaneo. Stava bene finalmente, e questo ovviamente gli causava tristezza e impazienza di tornare a casa. Spesso era nervoso, aveva perso il sorriso da tanto. Finalmente una data. Il 25 luglio, un lunedì. Ero contenta ma preoccupata. L’intervento andò tecnicamente bene. Dopo un paio di giorni iniziò a comparire
un po’ di febbre. Ma sembrava normale. Lui non riusciva a muoversi, era immobile. La febbre cominciò a salire e con lei anche la mia preoccupazione. Sei giorni dall’intervento zio alternava febbre alta a meno alta, era ancora immobile a letto e non dava segni di ripresa. Non mi convinceva. Cercai il medico di turno e gli rivolsi proprio la domanda “devo preoccuparmi?” Il medico mi guardò, mi fece l’occhiolino e mi rispose di no, che la febbre in quel momento non c’era e stavano somministrando antibiotico. A me non convinceva. Il settimo giorno, la febbre aumentava e zio era in affanno. Mi chiedevo cosa stessero aspettando a fare una TAC dopo tutte le vicende pregresse. Il medico di turno mi disse che c’era una infezione a livello di ferita chirurgica e che avrebbero fatto un tampone. Il giorno dopo zio non riusciva a parlare e respirare. Si sentiva un gorgoglio mentre cercava di parlare. Mi chiama mia madre in lacrime: zio presentava un’ infezione da Clostridium e necessitava isolamento. In successione, qualche ora dopo mi chiamò mio padre: l’esito della TAC era drammatico. Polmonite, versamento polmonare e grave infezione addominale con sepsi. Eravamo sconvolti! Zio doveva tornare in sala urgentemente e ora rischiava la vita. Mi precipitai e con mia sorella parlammo con l’anestesista. Zio necessitava di un trattamento intensivo e dopo l’intervento sarebbe stato portato nel comparto di trattamento intensivo post operatorio (TIPO). L’intervento andò bene, l’anastomosi aveva ceduto di nuovo. Ma la situazione era grave. Il mese di agosto fu terribile: si alternavano i colloqui con gli anestesisti, sempre molto cauti e seri, le lunghe attese e i brevi momenti concessi con zio, isolato in questa stanzetta in posizione immobile e di fronte solo un muro da fissare. Zio tornò in sala altre 3 volte nell’arco di 15 giorni. Le chiamate dell’ospedale erano diventate quotidiane e ormai avevo paura a rispondere. Complicazioni su complicazioni, ogni giorno compariva una nuova problematica. Sentivo che la situazione era troppo grave e a cascata stava cedendo tutto l’organismo. Eravamo sfiniti. La paura, la tensione, l’angoscia erano a livelli altissimi. Raggiunse finalmente una minima e precaria stabilità e venne tolto dall’isolamento. Aveva sondini di ogni tipo, cateteri di ogni tipo, ossigeno. Zio iniziò ad essere diverso; era talmente magro che sentivo solo ossa nel toccarlo, era debole e si era assentato. Non rispondeva e non interagiva più. Nel momento in cui finalmente vedevamo uno spiraglio di luce, zio non era più lo stesso. Nessuna parola, solo occhi chiusi. Ho avuto la percezione che fosse così stanco di tutto, fisicamente e psicologicamente, da ver perso la speranza. Nonostante questo era abbastanza stabile da poterlo trasferire in reparto. Chiesi che fosse seguito dall’internista che lo aveva preso in carico nei due mesi precedenti e così il 25 agosto zio venne trasferito finalmente nel reparto di gastroenterologia. Mi sentivo sollevata ma non mi piaceva come lo avevo visto negli ultimi due giorni. All’alba del 26 agosto mi chiamarono: il cuore di zio si era fermato nella notte, mentre dormiva. Zio non c’era più. Zio si era arreso. E io crollai con lui. Indossai l’ultima volta quel braccialetto verde il 26 agosto per salutare zio.
Da quel giorno mille domande avrei voluto rivolgere a tutti quei medici: perché non erano intervenuti prima? Perché aspettare 7 giorni per fare una TAC ad un paziente con evidenti segni di peggioramento e non di ripresa? Perché non fu ascoltata la mia preoccupazione? Perchè non monitorare in modo più scrupoloso un paziente FRAGILE che aveva già avuto precedenti proprio in quel tipo di intervento e con un quadro così delicato? Perché non mettere subito in intensiva un paziente FRAGILE dopo il primo intervento di ricanalizzazione?
Quei 6 mesi in quell’ospedale mi hanno permesso di osservare tanto, e tanti aspetti della vita in reparto. Ho potuto constatare tante mancanze, poca attenzione, poca comunicazione e ascolto dei familiari, e a volte incompetenza e mancanza di preparazione. Troppo lavoro e poco personale, che spesso nella difficoltà non riesce a gestire le situazioni più delicate.
Il braccialetto verde ha avuto tanti significati e ha segnato quei mesi: è stato il PERMESSO di entrare, è stato la GIOIA di poter stare con zio ogni giorno, è stato DOLORE, è stato PAURA, è stato VOCE, è stato SPERANZA.

Giovanna Rigillo