Firenze era sempre stato il luogo del cuore. Amavo i suoi palazzi, le sue strade, tutta la sua storia. Amavo Dante. Avevo imparato a conoscere la Divina Commedia con la
curiosità sana di chi vuole sapere e sapere e ancora sapere. Così, quando io, veneta, sono andata ad abitarci, la mia gioia era al culmine. La fortuna mi stava baciando dandomi anche la possibilità di abitare in una casa in centro. In fondo alla mia via le Cappelle Medicee. Di fronte, a farsi ammirare, il Campanile di Giotto che con il suono della sua campana scandiva la mia vita e, guardando sulla sinistra del nostro grande terrazzo sui tetti, Fiesole che mi sorrideva. Per quasi trent’anni io con la mia famiglia ho vissuto quasi in una favola: gli amici, i viaggi in giro per il mondo, le dolci serate fiorentine che abbracciano e regalano colori incredibili e il ritrovarsi in compagnia sul terrazzo di casa nostra, per cenare, la sera di San Giovanni, ed ammirare il cielo illuminato dai fuochi d’artificio. I “fochi di San Giovanni” come li chiamano i fiorentini. Tutto perfetto. Tutto incredibilmente perfetto. Poi un settembre strano. Una tosse che non se ne va. La bronchite che avanza e io che incomincio un iter fatto di visite mediche specialistiche, di cure, di febbri e di preoccupazioni. Forse è l’aria, mi dicono. Abitando in centro, Firenze non ti regala aria pulita, ma smog. Si parla, si parla. Io sto sempre peggio. Mi vede anche un luminare: tranquilla non è nulla di quello che pensi. Gli credo. Del resto non c’è nessun esame che possa comprovare il contrario. Solo questa febbre che non se ne vuole andare. Ma ci sono gli antibiotici ad aiutarmi. Poi la decisione su un suggerimento banale, ma che in quel momento sembrava ovvio. Se è davvero un problema di allergia, di aria pesante, ci sposteremo sul mare. A Livorno. E’ l’unica soluzione anche per mio figlio minore che nel frattempo deve finire il liceo. Non è stato facile all’inizio. Non è mai facile ricominciare in una nuova città. Soprattutto quando lasci qualcosa che ami profondamente. Ma era necessario. E così abbiamo fatto.
Livorno mi ha accolto nel modo migliore: con giornate luminose e piene di sole, cieli azzurri, un mare che incanta. E la bronchite che sparisce. Ritorno a Firenze ogni settimana. Sono felice. Forse, mi convinco, a Livorno ci potrei stare solo il tempo necessario per rinforzarmi ancora un po’. Invece… Invece la vita mi si ribalta completamente. All’improvviso.
Faccio una prima colica che sono a Padova. Con gli amici di sempre eravamo a festeggiare uno di noi che aveva appena presentato un suo saggio al Presidente della
Repubblica, su Giotto e i misteri della Cappella degli Scrovegni. Di colpo non ce la faccio ad ingoiare nulla. Lo stomaco mi fa molto male. Sarà perché pochi giorni prima
eravamo a festeggiare l’arrivo dell’Anno Nuovo e ho mangiato troppo?
Dopo pochi mesi la colica si ripropone. Sto sempre peggio. Incontro un nuovo medico che sa ascoltare. Mi lascia parlare e io gli racconto di quando avevo iniziato con la bronchite. Lo metto al corrente dei miei dubbi. Lui ascolta. Parla il giusto. “Facciamo la CEA” mi dice. Esame del sangue. Mai sentito. Ma mi fido e addirittura
non chiedo niente.
Vado a fare il prelievo a Firenze. Torno, così, per un momento, a casa con il corpo e con la mente. E questo mi tranquillizza. Firenze non mi può tradire.
La risposta è stata chiara per tutti, tranne che per me.
Da quel momento io mi sono come sdoppiata. Ho vissuto da automa. Io sapevo, ma era come se un’altra Lucia vivesse quella realtà.
Il cancro era arrivato nella mia vita. Era venuto nella maniera più sfacciata.
L’intervento demolitivo, pesante, lungo. Poi subito, a seguire nel giro di pochi giorni, il posizionamento del port, per me scioccante (nessuno che ti spieghi mai nulla!!) e
l’inizio degli infiniti cicli di chemioterapia.
Prima scrivevo di arte. Ora scrivevo un diario di bordo. Per fissare immagini. Per buttare fuori paure. Per ritrovarmi e credere che ancora il mondo mi stava
aspettando.
Per ricordare e tirare fuori una Lucia che si stava perdendo nel pantano della paura.
Per onorare incontri con compagni di viaggio che ora non ci sono più.
E’ un cammino lento, veloce, lungo, infinito. Ma è ancora cammino.
Il mio inciampo, come lo chiamo io, non mi ha abbattuta. Non ancora.
Ora io vado in giro. Parlo. Presento i miei libri che parlano di sanità e cerco di scuotere le coscienze. Cerco di dare conforto a quelli come me che si trovano nel limbo
dell’attesa di una diagnosi. Nell’attesa di un responso. Nell’attesa di una nuova vita regalata.
Il cancro mi ha tolto tantissimo, ma mi ha regalato anche tantissimo.
Le emozioni hanno nuovi colori: qualche volta più grigie, altre più colorate.
Ho fatto incontri impensabili. Ho conosciuto una umanità che non avrei mai immaginato esistesse.
Mi ha insegnato la pazienza. E mi ha fatto capire che in qualsiasi percorso di malattia se non si è complici si muore di terrore. E tutto diventa più difficile.
Mi ha tolto una pace pacata, mi ha regalato una vita diversa.
Una vita diversa…
Già, ma, forse, davvero più vita. Al di là delle tante neuropatie che le chemio mi hanno regalato. Al di là della pelle sciupata per sempre. Al di là delle tante paure da gestire.
Al di là dei dolori improvvisi. O degli esami invasivi. O di sguardi e domande inopportune.
Al di là di tutto io vivo ancora. Di più.
Sono grata a questa nuova difficile vita e finalmente mi concedo anche di essere qualche volta sciocca.
Mi prendo in giro e ho imparato a sorridere anche quando vorrei sedermi per terra ad aspettare che il tempo faccia il suo corso.
Ma è solo un attimo.
Io il tempo ho imparato a dominarlo. Lo riempio di pensieri e cose e incontri. Lo riempio di gioie e lacrime. Ma non lo riempio più di solo cancro.
Il cancro è stato un inciampo.
Solo un antipatico, improvviso, sgradevole inciampo.
Io, invece, sono ritornata ad essere ancora Lucia.
Una Lucia che ancora scrive, dipinge, incontra, crede, progetta.
Una Lucia che soprattutto, assolutamente, con gioia, VIVE.