Perché scrivere la mia storia?

Perché è una storia d’amore bellissima che mi ha cambiato la vita. Una di
quelle storie che si insinuano dentro di tè piano piano fino alle viscere.

Quelle storie che ti sconvolgono, ti annullano, ti portano via la dignità,
ti annientano e ti straziano dal dolore fisico e morale. Quelle storie che
ti costringono a fare scelte importanti, a prendere decisioni che mai
avresti voluto prendere. Una di quelle storie di cui tu sai …per sentito
dire che accadono agli altri, ma pensi che tanto a te non toccherà mai!

Invece a me è accaduto!

E POI SCRIVO PER PAURA! Paura di dimenticare la fortuna che ho nell’esserci
ancora in questa vita!

Ma anche paura di rivivere quei momenti. Paura di ricordare gli occhi
smarriti dei medici, che mi curavano con professionalità ma senza certezze.

Paura di rivedere quegli sguardi impotenti. Paura di ricordare quelli che
finivano sempre con il dire: signora mi spiace, dev’essere una patologia
rara, sconosciuta!

Per sedici mesi ho girato tra consulti, visite e ricoveri in vari
ospedali sentendomi ripetere la stessa cosa.

Quell’impotenza dei medici, quel non sapere cosa mi stava accadendo mi
uccideva più del male!

Poi finalmente, dopo 16 mesi di girovagare tra gli ospedali del Veneto,
aver fatto 8 colonscopie e 12 gastroscopie ho conosciuto lui: mio nuovo
compagno di vita!

Si chiamava e ancora si chiama: Cancro neuroendocrino con il glucagone. Lui
mi ha cambiato la vita!

Adesso stiamo insieme da cinque anni. Subito non riuscivamo a capirci,
eravamo come due sconosciuti in guerra ogni giorno. Poi abbiamo iniziato a
parlarci, le tensioni si sono attenuate e abbiamo cominciato a dialogare.
Siamo riusciti a far cadere il muro che ci separava e insieme abbiamo
costruito un ponte. Lui mi insegna ogni giorno un sacco di cose, non sempre
piacevoli ma molto utili. E lui che ogni mattina quando apro gli occhi mi
prende per mano e insieme ce ne andiamo dicendo: VIVA LA VITA!

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Io sono Ornella Vezzaro e nell’inverno del 2014 avevo 63 anni. Un marito,
due figlie grandi, un lavoro che amavo tantissimo e mi dava immense
soddisfazioni, un padre morto di cancro al fegato quando avevo 14 anni, una
mamma ricoverata al centro ALZHEIMER da tempo e una sorella che stava
morendo di cancro all’intestino.

Ricordo nitidamente il primo momento di vero disagio provocato dalla mia
malattia, perché mi trovavo nella piazza principale della mia città e stavo
lavorando per organizzare i mercatini di Natale dei commercianti, per
l’associazione di cui ero responsabile.

Una collega mi si avvicina e guardandomi le mani incerottate con uno
sguardo schifato mi dice: ma insomma fai qualcosa per quelle mani o almeno
mettiti i guanti, non vedi che hai macchiato tutti i fogli degli appunti?

Mortificata guardai i fogli che lei teneva in mano e che io avevo
appoggiato in uno scatolone.

Lei me li sventolò davanti al naso prendendoli dalla parte pulita, vidi
che agli angoli si vedevano delle striature rosa e giallastre, segni
indelebili che le piccole ferite che avevo nelle mani lasciavano sui fogli
dei miei appunti di lavoro. Scusandomi per il disagio dissi: mi spiace, ma
il freddo di stamattina non fa che accentuare il problema delle piaghette (
così chiamavo io i piccoli tagli che avevo su mani e piedi ) e con i
guanti addosso non riesco a fare nulla. Lei vedendomi mortificata si prodigò
in mille consigli che io già conoscevo e applicavo costantemente come:
prendere integratori a manetta, proteggere le mani con creme o unguenti
appositi, cure alle terme di Comano, visita dal famoso e rinomato
dermatologo, test allergologici ecc.. Nulla! Le piaghette non guarivano
anzi! Lentamente si allargavano oltre mani e piedi su avambracci e gambe.
Avevano invaso anche le mie parti intime, con bruciore atroce quando facevo
la pipì o defecavo. Si erano presentate anche sotto le ascelle e qualche
taglietto si stava formando sul cuoio capelluto creando ulteriori problemi.
Dai test fatti Io non risultavo allergica a nulla, se non ad un fastidioso
prurito le rare volte che mi ingozzavo di fragole, ma questo lo sapevo da
anni. Il primo dermatologo mi aveva indicato una cura a base di zinco e
argento colloidale, il miglioramento sarà immediato disse! Nulla! Per il mio
medico di base invece ero solo stressata e lavoravo troppo. Avevo fatto
anche ecografia, gastroscopia e colonscopia, per capire se avevo problemi
di altro tipo all’intestino. Tutti dicevano che dall’esito degli esami
avrei dovuto stare bene. La clinica dove privatamente avevo fatto i test
per le allergie iniziò a parlare di malattia rara della pelle. Non era
psoriasi dicevano, ma le cure che mi davano erano le stesse. Negli ultimi
mesi ero anche dimagrita, molto! —–Il sogno di dimagrire senza dieta si
stava realizzando pensavo. In realtà dimagrivo perché avevo dovuto eliminare
dall’alimentazione alcuni cibi che mi procuravano un tremendo bruciore alla
papille. Avevo le gengive che sanguinavano e molto arrossate. Anche la mia
lingua era spesso di un colore scuro, quasi prugna. Certo pensai in quei
giorni, non sarà un gran Natale! Mia sorella per le festività si
aggravò ulteriormente, la mandarono a casa dall’ospedale perché così lei
aveva chiesto, consapevole che non avrebbe visto arrivare la primavera
del nuovo anno.

Lei aveva 67 anni e da tre anni era in cura a Padova. Il suo cancro partito
dall’intestino, si era poi diramato a fegato e pancreas, per poi invadere
tutto il suo corpo di metastasi.

Mia mamma da alcuni anni era ricoverata in un centro per l’Alzheimer. Non
stava male, ma il suo carattere non era migliorato per niente con il
ricovero nel centro! Io andavo a trovarla se potevo la sera dopo il lavoro,
poi il sabato e la domenica passavo con lei i pomeriggi. Lei era sempre
arrabbiata con il mondo intero! In particolare con mia sorella perché non
andava a trovarla. In accordo con mio fratello non avevamo detto a mia
madre che la malattia di mia sorella era in stato avanzato. Quando mi
vedeva si metteva a urlare dicendomi: quando la vedi tua sorella digli che
si vergogni di stare mesi e mesi senza venire a trovare sua madre. Per me è
come morta! Appena esco gliele faccio pagare tutte a quella disgraziata,
perché voi credete che io sia matta, invece sono più furba e sveglia di voi!
E andava vanti così per tutto il pomeriggio. L’ultima volta che avevo
portato mia sorella a trovare mia mamma lei non l’aveva riconosciuta. Si
chiamava Rosi mia sorella ed era diventata calva per la Kemio, aveva perso
20 kg e non si reggeva in piedi. Aveva un colore del viso che andava dal
giallo al grigio. Quella volta era una giornata d’autunno e lei si era
messa un cappello in testa e un grosso scialle per proteggersi dal freddo.
Mia madre appena vide questa figura che a malapena si reggeva al mio
braccio, cominciò ad urlare chiamando il personale del centro, perché
secondo lei gli avevo portato

un’ estranea in camera. Disse che non aveva bisogno di vedere foresti
curiosi, che andavano li per capire la sua situazione. Fummo costrette ad
uscire in fretta dalla stanza perché mia sorella si mise a piangere
disperatamente. Fu l’ultima volta che si incontrarono. Mia sorella morì a
meta gennaio del 2015. Chissà se dove sono ora, si saranno ritrovate e
riconosciute finalmente!

Così arrivò la primavera e con il passare dei mesi la mia salute continuava
a peggiorare. Gli unici alimenti che orami riuscivo a mangiare erano il
petto di pollo ai ferri e le patate lesse, come frutta mangiavo la mela
macinata come per i neonati. Avevo sempre le gengive sanguinanti, le
pieghette mi avevano invaso la lingua, i piedi e le gambe fino al
ginocchio, oltre alle parti intime che oramai erano diventate uno strato
purulento e sanguinante di quella parte del corpo.

Io continuavo inutilmente a medicare le parti ferite e doloranti, a
spalmare pomate e unguenti di ogni tipo ma non serviva a nulla. Mi
ricordo che andavo in farmacia e lasciavo un capitale ogni volta in
acquisti di garze sterili, pomate e integratori. Andavo al lavoro con i
guanti, perché dalle unghie e dalle dita mi usciva il pus se sfioravo
qualcosa. Ogni mattina e sera perdevo delle ore a medicare le mie ferite e a
cambiare le garze. Portavo i pantaloni e le gonne lunghe, per nascondere le
fasciature delle gambe e le scarpe di pezza, che erano simili alle pantofole
che portava mia mamma che avevo sempre odiato! Avevo iniziato a fissare i
miei appuntamenti di lavoro solo in tarda mattinata. Prima delle 10.30 –
11.00 non potevo uscire di casa, la dissenteria non mi dava tregua. In
alcuni giorni il mio corpo diventava come un rubinetto senza valvola di
chiusura, non sempre mi dava il tempo di arrivare in bagno. Quello che
usciva non erano feci, quelle solide con la densità della polpa di banana
come leggevo su internet, quando descrivono la perfetta densità delle
feci. Le mie erano un getto continuo di liquido di colore giallo, con un
odore acido che quasi sempre mi provocava il vomito.

Non ero più così felice di essere diventata magra!

Iniziai a diradare gli appuntamenti di lavoro, troppo spesso mi accadeva di
dover assentarmi dal tavolo di riunioni alzandomi di corsa, con l’angoscia
di non arrivare in tempo ai servizi.

Non sempre le persone capivano il mio disagio. Fui ricoverata una prima
volta nel marzo del 2015 al pronto soccorso. Senza motivo un pomeriggio
iniziai a vomitare e getto continuo come un idrante e non smisi per non so
quanto tempo. Mio marito che mi accompagnava in ospedale, consegnò al
medico del pronto soccorso la cartellina blù che conteneva le diagnosi delle
visite e accertamenti fatti negli ultimi mesi. Il medico aprì il fascicolo e
disse: ma solo visite private avete fatto fino adesso? Si disse mio marito,
ma se serve a capirne di più può rimanere in ospedale. Non serve disse lui
con tono sbrigativo, se qui e scritto che ha il Morbo di Krohn da quello
non si guarisce! Io con un telo sulla bocca per contenere il vomito e uno in
mezzo alle gambe per non far scendere il liquido, ascoltai la diagnosi
sbrigativa funesta. Pensai che così non aveva più senso vivere. Dopo 24
ore ininterrotte di flebo il mio corpo smise di emettere liquidi. Mio
marito mi portò a casa che non stavo in piedi. In un giorno avevo perso
quasi 4 kg di peso. Continuamente pensavo alla sentenza del medico del
pronto soccorso. Non volevo più essere magra, non volevo più medicarmi le
ferite, non volevo più portare il pannolone, non volevo più mettere i guanti
quando uscivo per non vergognarmi. Arrivava la primavera e io non capivo
più cosa mi stava succedendo. Non riuscivo più a lavare un bicchiere, ad
aprire una bottiglia d’acqua perché le ferite delle dita si aprivano
sporcando tutto di sangue. Non potevo più toccare l’acqua che mi apriva le
ferite, provocandomi sulla pelle bruciori dolorosi e allargando in questo
modo le piaghe. Così per lavarmi usavo delle garze con liquido igienizzante
e lenitivo, ma il dolore non mi dava tregua. In maggio fui ricoverata una
seconda volta nello stesso ospedale per vomito e dissenteria con lo stesso
risultato. Flebo per due giorni, cartellina blu contenente le diagnosi
precedenti, passata inosservata nelle mani del medico di turno. La
differenza fu che la persona che era in turno la prima notte, dopo tre ore
che io vomitavo e scaricavo senza sosta mi disse: se vai avanti così tra un
po’ finisco i teli, poi dovrai aspettare che arrivi il cambio turno per
quelli puliti. Non avevo la forza di rispondere, rimasi in silenzio nel
lettino cercando di non disturbare. Quando arrivò il cambio turno nel
passaggio di consegne , sentii la tipa che diceva al collega:

e qui un’altra volta quella tipa che “caga e vomita a manetta” quella piena
di piaghe! Ma cosà facciamo noi con una così?

IO NON VOLEVO PIU’ VIVERE! Percepivo che in quell’ospedale mi davano già
come spacciata!

Quando mio marito venne a prendermi gli raccontai la conversazione del
personale infermieristico e lui chiese di parlare con il medico che
sconsolato gli disse: mi spiace, ma se ha quella malattia serve andare in
un grande centro, qui siamo un ospedale di provincia e oltre a fermare il
vomito e dissenteria con la flebo non possiamo fare altro. Mio marito disse
che avevamo già fissato appuntamento a Padova. Tornata casa avevo perso
altri 5 kg. in due giorni. Non riuscivo più ad alzarmi da sola e avevo
bisogno di aiuto per qualsiasi cosa. Andammo a Padova per un consulto. Anche
lui come gli altri luminari precedenti, prescrisse ulteriori esami,
colonscopia, gastroscopia, ecografia ecc.. Ogni specialista nuovo che mi
vedeva, pretendeva che rifacessi gli stessi esami ma nei centri da lui
indicati. Mi adeguavo, ma ogni volta che dovevo sottopormi a colonscopie e
gastroscopie, dovevo andare in un centro privato a Vicenza o a Verona per
fare l’ idrocolonterapia. Non riuscivo a tenere dentro quel liquido che ti
prescrivono di bere prima di quegli esami, che serve per pulire
l’intestino. Io vomitavo qualsiasi cosa! ( Per chi non conosce
l’idrocolonterapia, l’operazione consiste nell’introdurre nel retto una
cannula che immette acqua depurata attraverso un sondino. Il liquido
immesso passa nell’intestino per il lavaggio uscendo da un’altra cannula)
Ma io avevo la zona anale piena di piaghe sanguinanti.

Ogni volta che mi infilavano il sondino all’interno del retto, il dolore
era atroce e lacerante.

Il luminare padovano quando mi visitò disse che a Vicenza lui conosceva un
dermatologo che mi avrebbe fatto un test con dei prelievi sulla pelle, per
capire la causa delle piaghe purulente. Mi ricordo che mi tirò via la benda
dall’ombelico e toccandomi vide che usciva del pus. Sconsolato disse: ormai
però la malattia e abbastanza avanti!!!

L’unica cosa positiva che ricordo di quel periodo era la forza e la
costanza delle mie figlie. Mio marito non parlava mai, come un automa mi
portava in giro per visite ed esami nei vari ospedali, mi faceva
praticamente da badante. Ma non voleva affrontare mai il discorso della
gravità della malattia. Passerà diceva, ti stai curando e passerà! Invece le
mie figlie che vivevano già fuori casa, alla sera arrivavano per vedere
come stavo e senza mai perdersi d’animo, sentendo la cronaca del mio
peregrinare inutile per gli ospedali dicevano: BENE! Adesso vediamo dove
potresti ancora andare a fare una visita per capire che diavolo hai! E si
mettevano a cercare in internet un altro specialista per poi mandarmi a fare
ulteriori accertamenti che io non avevo più voglia di fare!

Il famoso specialista vicentino quando mi vide disse che secondo lui,
tutti avevano sbagliato a curarmi la pelle per la psoriasi.

Disse che quella malattia non provoca quel tipo di piaghe purulente. Io
che per una vita avevo sempre saputo ribattere su ogni cosa non avevo più
parole da dire, ero distrutta, piegata dalla stanchezza fisica e mentale.
Mi disse che avrei sofferto un pò di dolore quando mi avrebbe fatto i
prelievi sottopelle, che poi mi avrebbero dato qualche punto di sutura e,
dopo il bendaggio mi avrebbero mandato a casa. Mi bucarono con un piccolo
trapanino alcune falangi delle dita delle mani piagate, un piccolo buco su
ogni piede, sotto una ascella dove la piaga era più grande. Disinfettarono e
poi mi ricucirono le parti bucate. Mi guardò anche la lingua e disse: qui
non possiamo farlo, altrimenti poi non riesce più a mangiare nulla per un
mese, prima che si rimargini la ferita.

Non dicevo nulla! Ero colpita dal suo tono di voce pieno di sicurezza e
baldanza, come stesse partecipando ad una festa. Cosa che contrastava molto
con lo sguardo compassionevole dell’infermiera che lo assisteva! Mi
guardava seria come se io fossi già morta! Per consolarmi ogni tanto
diceva con insistenza ma senza convinzione: non si scoraggi signora, finche
c’è vita c’è speranza. Ma io non vivevo più da tempo, ero morta dentro!
Quando il dottore baldanzoso fini la cucitura su mani, piedi e ascella disse
con la solita finta allegria: vediamo qua nelle parti intime com’è la
situazione! L’infermiera mi aiutò a togliermi il pannolone che ormai era
diventato una parte costante del mio quotidiano. Quando lui si avvicinò con
il trapanino pronto appena sterilizzato, io ero posizionata sul lettino con
le gambe divaricate. Lui si avvicinò poi inorridito fece un passo
indietro, si mise le mani negli occhi e con terrore esclamò: HO MIO DIO!
Nò, nò io non la tocco, io non ho mai visto una cosa simile io non la tocco!
Posò il trapanino sul tavolo della strumentazione e uscì di corsa
lasciandomi li da sola con l’infermiera, che mi teneva la mano e non parlava
più!

IO PIANGEVO SENZA FAR RUMORE! Avrei tanto voluto morire, sparire per sempre
dalla faccia della terra. Ero imbarazzata, scoraggiata, disperata! Mi
chiedevo che razza di medico era questo energumeno che si spaventava
vedendomi in quella situazione. Può chiamarsi medico un individuo che
invece di mettersi dalla parte del paziente, esce inorridito e spaventato
dalla sala operatoria? Tornò dopo un pò con un collega, che prendendolo un
po’ in giro, perché: è molto giovane disse, mi fece subito una iniezione
anestetizzante, procedette con la trapanatura e il prelievo, ricucì il
tutto e sorridendo, anche lui, mi disse: vada, vada signora, vedrà che
con questo test finalmente capiremo dove sta il suo problema.

L’esito di quell’esame l’ho studiato a lungo, non solo perché mi e
costato tanto dolore, ma volevo capire! Capire dove mi stava portando
questa strana malattia di cui nessuno sembrava sapere nulla. ln realtà
nella diagnosi riportata sulle due paginette, l’esito elencava 4 – 5
ipotesi di malattie della pelle che, per essere approfondite avrebbero
avuto bisogno di ulteriori accertamenti , che io avrei potuto fare se
accettavo di ricoverarmi in una clinica privata che veniva elencata in
fondo alla pagina!

Ero basita! Nessun riferimento veniva riportato nell’esito sulla persona
del paziente. IO IN QUESTO CASO! Io che avevo perso negli ultimi mesi più di
10 kg a causa del vomito e dissenteria. Io che giravo da oltre un anno per
gli ospedali con una cartellina blù che spesso molti specialisti
ignoravano, come se quelli arrivati prima di loro non avessero capito nulla
di me come paziente. Senza contare che nessuno mai mi chiedeva come stavo
io psicologicamente come persona! Mi sembrava impossibile che nessuno si
rendesse conto della mia disperazione. Mi sentivo come una cavia sbattuta da
una visita all’altra, da un esame all’altro senza avere come risposta un
esito definitivo.

Verso la metà di giugno di quel 2015, dissi a mio marito che mi sarebbe
piaciuto andare per alcuni giorni al mare. Stavo prendendo degli integratori
che davano buoni risultati e avevo meno dissenteria. Vomitavo anche molto
meno e mi sembrava di stare meglio. Sentito il medico amico di famiglia,
decidemmo di andare in Toscana provincia di Livorno. Conoscevamo il posto,
ci eravamo trovati bene. Il secondo giorno di mare, dopo le solite corse
mattutine in bagno, decisi che era venuta l’ora che mi muovessi da sola.

Stavo bene! Avevo fatto colazione, avevo buttato fuori tutto nel water
ma non avevo dolori. Dissi a mio marito che volevo fare una passeggiata
sulla spiaggia da sola!

Ero stanca di avere sempre bisogno di qualcuno che mi accompagnasse,
volevo riprendere la mia autonomia, sentivo che dovevo farlo per ritrovare
un po’ di me stessa.

Promettendo che sarei tornata subito mi incamminai sulla spiaggia con una
maglietta sopra il costume e una asciugamano, per sedermi nel caso mi
fossi stancata.

Ricordo che camminavo serena, fermandomi ogni tanto a guardare i sassolini
di variegato colore che si trovano in quell’arenile.

Mi fermavo a guardare il mare che da sempre mi dà una carica di vita
pazzesca, chiedendomi ancora una volta cosa ne sarebbe stato di me! Sempre
più mi trovavo a pensare a com’era cambiata la mia vita negli ultimi mesi.
Non era vita mi dicevo, non era più vita! Improvvisamente un dolore
lancinante mi attraversò la pancia. Un getto improvviso di liquido giallo e
maleodorante iniziò ad uscire senza ritegno dal mio retto. Mi accucciai per
terrai piena di vergogna nel bagnasciuga!

Immobile, paralizzata dal disagio e dalle fitte di dolore che mi
attraversavano la pancia, cercavo di coprirmi nascondendomi con
l’asciugamano.

Ma l’odore nauseabondo che si stava propagando attorno dov’ero accucciata
era inconfondibile!

Il liquido schiumoso che mi usciva senza sosta dal retto, non veniva
nemmeno assorbito dalla sabbia e si spargeva in tanti rivoli minori sui
sassolini variegati della spiaggia.

Sentivo con immenso disagio che dai lettini i bagnanti mi guardavano con
pietà e commiserazione. Una signora si alzò e avvicinandosi mi chiese se
stavo male. Dissi di si ma che non avevo bisogno di nulla. Volevo solo
fuggire da quella situazione, di scomparire per sempre! Chiesi se c’era un
bagno vicino e lei, mi indicò dove andare. Mi rialzai, sembravo un rubinetto
senza chiusura. Andai verso i servizi. Camminando sentivo che il liquido
mi scendeva bagnandomi le gambe e le ciabatte, dove appoggiavo i piedi
lasciavo uno strascico nauseabondo che segnava il mio cammino.
Avvicinandomi al bar, il gestore vedendomi con la maglietta e l’asciugamano
inzuppata di feci, senza tante remore mi fece cenno che in quelle
condizioni io nel loro bagno “non ci sarei entrata”

Chiesi per favore e lui alzando la voce disse: è solo per i nostri
clienti, non per quelli che se la fanno addosso! Sentivo che tutti mi
stavano guardando mentre camminavo e mi allontanavo piena di vergogna. Tutti
si scostavano turandosi il naso. Piangevo e mi incamminai per tornare al
mio lettino. Non avevo nemmeno preso il cellulare!

Avrei voluto sprofondare DEFINITIVAMENTE! Avevo smesso di perdere liquido,
ma avevo le gambe e le ciabatte piene di feci nauseanti . Arrivata ad un
altro bagno mi avvicinai al bar per chiedere dei servizi. Vidi una signora
spuntare da dietro il bancone, dall’accento capii che era di nazionalità
rumena e mi chiese: cosa vuole lei signora? Mi misi a piangere.

Lei uscì e vedendomi si turò il naso ma capì subito la situazione. Disse
piano: vieni signora, vieni, tu cosa mangiato ieri sera per fare così? Tu
mangiato un sacco di porcherie!

Vieni che ti do scotex. Mi accompagnò in bagno, mi diede un rotolo di
scotex per pulirmi le gambe. Poi mi chiese: chi chiamo io per dire che tu
sta male?

Gli diedi il numero di mio marito che lei chiamò e che venne subito a
prendermi.

Nel pomeriggio lasciammo l’albergo e tornammo a casa, non volevo vedere più
nessuno in quel posto!

Nei primi giorni di luglio del 2015 fui ricoverata per la terza volta
nello stesso pronto soccorso dell’ospedale vicino a casa. Ricordo che mio
marito chiamò l’ambulanza spaventato, perché avevo iniziato a vomitare
con una violenza incredibile. In mezz’ora avevo irrorato di vomito le
pareti del bagno fino al soffitto e ….non smettevo più! Mi accorsi seduta
nel water, che la dissenteria che mi usciva senza sosta, aveva
trapassato il pannolone inzuppando i pantaloni della tuta. Con orrore e
sgomento vidi che le feci avevano bucato il tessuto dei pantaloni. Non
avevo mai visto una cosa simile! Il tessuto era come bruciato attorno ai
buchi. Pensavo di stare vivendo in una realtà diabolica, ero spaventata a
morte, inorridita da quello che mi stava accadendo! Dopo tre giorni di
ricovero sotto flebo come al solito tornai a casa ormai senza più speranza.

Avevo capito che nulla avrebbe potuto cambiare la lenta agonia in cui ero
piombata. SAREI MORTA SCIOGLIENDOMI NEL WATER PENSAVO!

Tanto valeva escogitare un modo per andarmene prima possibile! Non mi
reggevo più in piedi da sola, non potevo più andare in ufficio, gli incontri
di lavoro, gli aggiornamenti, la formazione erano un lontano ricordo. Non
riuscivo più a scrivere, a battere i tasti sul p.c. con le mani fasciate.
Qualche cliente dell’ufficio era venuto a trovarmi a casa per le consulenze,
ma vedevo i loro volti trasfigurarsi tra pietà e commiserazione appena mi
vedevano. In sei mesi avevo perso 15 kg, mi muovevo molto lentamente
appoggiandomi alle pareti di casa per paura di cadere. Avevo gambe, piedi e
mani fasciate. Le labbra gonfie, piene di piccoli tagli. Mi trascinavo tra
il letto e il divano per 24 ore al giorno, sempre con un telo in mano, per
paura che arrivasse all’improvviso un attacco di vomito. Le colleghe del
comitato imprenditoria femminile della Camera di Commercio passavano ogni
tanto per salutarmi. Le vedevo che tornavano dal lavoro di corsa,
concitate, raccontandomi le loro giornate piene di incontri, aggiornamenti,
notizie sull’economia eccc.

Sembrava un altro mondo, un’altra epoca rispetto a quello che stavo vivendo
io!

Eppure io fino a pochi mesi prima vivevo come loro! Dov’era finita
quell’Ornella che lavorava in media 11-13 ore al giorno? Che usciva alle
8.00 di mattina e spesso tornava a sera tardi, mezzanotte o anche oltre,
perché le riunioni non finivano mai! Che poi anche se ero stanca non andavo
a dormire! Mi mettevo a leggere i quotidiani per essere aggiornata su
quello che accadeva, sulle novità fiscali o economiche. Perché amavo il mio
lavoro, mi dava grandi soddisfazioni, mi piaceva studiare, essere preparata
e aggiornata. Lavorando in un mondo economico gestito al 90% dai maschi,
avevo imparato che per essere accettata coma una “loro pari” si doveva
arrivare agli incontri o nelle commissioni sempre preparati, altrimenti
restavi tagliata fuori. Negli anni ho imparato che in qualunque settore le
donne riescono a fare carriera, risultano sempre più competenti e preparate
degli uomini.

Ma quella persona che io ero prima non esisteva più!

Quell’Ornella che si svegliava presto al mattino per prepararsi la relazione
prima di un convegno, coraggiosa, piena di voglia di vivere, sicura di se
stessa, adesso non leggeva più nemmeno i quotidiani economici.

Passavo le mattine tra bagno, letto e divano, trascinandomi per la casa
sfinita.

Scrivevo ogni giorno in un foglietto, con dovizia di particolari quante
volte andavo in bagno, il colore delle feci, la densità, se erano oleose,
l’odore che avevano!

Se me l’avessero raccontato che sarei finita così, ci avrei riso sopra
all’infinito!

Ma c’era poco da ridere!

Una sera di fine luglio il medico amico di mio marito che passava spesso
per vedere come stavo disse: vuoi provare ad andare anche a Negrar per una
visita! Ho mandato un parente per dei problemi sulla pelle e si e trovato
molto bene. C’è una dottoressa che si chiama M. molto brava. Naturalmente
prenotai subito la visita.

Dopo pochi giorni ero da lei privatamente. Fu gentilissima, per la prima
volta vidi un medico che si lesse con attenzione tutto il contenuto della
cartellina blu. Anche lei disse che io non soffrivo di psoriasi. Disse che
le cure per la pelle andavano bene, ma che c’era qualcosa che non capiva.

Per la prima volta sentii un medico che mi diceva: per una diagnosi precisa
su di lei ho bisogno di confrontarmi anche con il primario di
gastroenterologia. Perché questo problema di vomito e dissenteria potrebbe
essere legato al suo problema dermatologico. Lei non era sicura di sé come
tutti quelli che mi avevano visitato nei mesi precedenti, lei voleva
confrontarsi con altri suoi colleghi. Mi fissò dal suo ambulatorio
l’appuntamento con il primario di gastroenterologia di Negrar, dottor G.
dopo una decina di giorni. Nel frattempo le mie figlie mi avevano fissato
una visita anche con il primaio di gastroenterologia all’ ospedale di Borgo
Roma (VR )

Anche in quella visita il primario si lesse con attenzione tutto il
malloppo della cartellina blu. Anche lui mi fece l’anamnesi familiare
chiedendomi le solite cose, le patologia avute prima, se avevo avuto parenti
morti di cancro ecc.. Leggeva le diagnosi precedenti, mi guardava e
ripeteva: sa che lei e un caso strano! Un caso da studiare!

Si, si, mormorava quasi compiaciuto, lei e un caso da studiare! Finita la
lettura della cartellina blu mi chiese: ma quanto tempo è che lei gira per
gli ospedali?

Quasi un anno e mezzo risposi! Lui disse alzando il tono di voce: ma scusi,
perché in tutto questo tempo non ha fatto nemmeno una TAC, una risonanza,
una PET?

Perché nessuno mi ha detto di farla risposi! Lui quasi stizzito mi disse: ma
lei non ci ha pensato? Ricordo che mi assalì una rabbia dentro, un impeto
di ribellione da mancarmi quasi il fiato. Risposi: in questi 14 mesi ho
fatto tutto quello che mi hanno detto di fare, pagando tutto quello che
serviva senza mai fiatare. Se mi avessero detto di farmi una TAC l’avrei
fatta. Come posso io malato sapere quando serve fare una TAC, PET o
risonanza? Io non sono un medico, io sto male!!!

Certo disse lui, ha ragione. Si calmò e anch’io. Continuò a parlare dei
sintomi che dava il morbo di Krohn, che potevano essere simili a quello che
avevo ma che secondo lui io non avevo.

Mi visitò, chiamò dentro mio marito, disse che ero un caso da approfondire,
che il mio fisico non assimilava più gli alimenti che ingerivo e che questa
patologia poteva essere paragonata alla pellagra! Non sapevo se ridere o
piangere! Disse: se vuole entro due giorni le trovo un letto qui da noi che
studiamo il caso. Mio marito rispose: grazie ma dopodomani abbiamo un
appuntamento a Negrar con il primario di gastroenterologia, vediamo cosa ci
dicono e semmai la chiamiamo e verremo da lei . Lui disse: ma il primario di
Negrar il dottor G. e un mio grande amico, quando ci sono dei casi strani
ci confrontiamo e li studiamo insieme. Così dicendo fece il numero e da
Negrar il dottor G. rispose subito. Senza giri di parole disse: Ho qui
davanti la signora Ornella Vezzaro, che tu domani dovresti vedere per
problemi gastroenterologici, mandata da te dalla dottoressa M. per problemi
dermatologici. Erano in viva voce e dall’altra parte del filo il dottor G.
confermò l’appuntamento. Disse: oggi e qui da me, se non hai un posto letto
e se la signora e d’accordo me la tengo qui e la ricovero!

Ero stanca e debole, ma ancora in grado di decidere da sola, alzai la mano
e dissi: guardi che domani vado a Negrar e poi decido cosa fare!

Lui fece di si con la testa sorridendo. Disse al collega: dopo ti chiamo e
ci parliamo!

Il giorno dopo il dottor G. primario di gastroenterologia di Negrar mi
accolse come mi conoscesse da sempre. Lesse anche lui con attenzione tutto
il contenuto della cartellina blu. Con un sorriso dolce disse: non serve
che la visiti signora . Vada a casa che io entro 48 ore le trovo un letto
nel mio reparto. Lei verrà chiamata dalla signora x, che le dirà a che ora
si dovrà presentare qui dopodomani, verrà presa in carico da questo
ospedale e insieme cercheremo di capire cosa le sta accadendo.

Avete presente quando dal buio più profondo si vede lontano un barlume di
luce? Non sapevo se era una luce o un baratro luminoso quello che mi
aspettava.

Di sicuro mentre mi preparavo la borsa con le cose per il ricovero, mi
accorsi che non stavo più pensando ad un modo indolore per andarmene in
maniera veloce e sbrigativa da questa vita!
SECONDA PARTE.
Così la signora xxxx della segreteria dell’ospedale, puntuale mi chiamò il giorno dopo, spiegandomi che il 28 agosto alle ore 7.00 sarei stata accolta nel reparto di gastroenterologia di Negrar.

Non sapevo quanto sarei rimasta in ospedale. Poteva essere un ricovero a vuoto come i precedenti, ma non avevo alternative. Sentivo che stavo perdendo la voglia di provarci, volevo solo che tutto finisse in fretta. Le piaghette come le chiamavo io, nel frattempo avevano iniziato a coprirmi il viso. Avevo il contorno degli occhi pieno di piccole ferite, come tutto il contorno labbra coperto di croste e anche il naso, il mento e le guance. Mi sentivo come una lebbrosa. Una larva che marciva trascinandosi tutto il giorno tra bagno, letto e divano. Mi riesce difficile descrivere le sensazioni che provavo in quel periodo, anche un semplice sorriso mi provocava un dolore atroce, se ridevo si aprivano le ferite, sanguinavano, poi non c’era niente da ridere! Da mesi non potevo più lavarmi con l’acqua, avevo quasi tutto il corpo coperto di bende che dovevo cambiare continuamente, le persone a me non si avvicinavano più volentieri, si sentivano a disagio. Provavano vergogna, me lo dicevano e io le capivo.
Capivo che era meglio per tutti se me ne andavo! Provate a pensarci! Marcivo vergognandomi di quello che mi stava accadendo, senza che nessuno mi dicesse perché e per quale motivo mi accadeva!
Ricordo bene le ore passate su internet prima di quel ricovero. Percepivo che avrebbero diagnosticato il tipo di patologia che mi affliggeva, ma visto le diagnosi precedenti, come gli altri mi avrebbero detto che ormai era troppo tardi!
Avrebbero allargato le braccia dicendo: mi spiace!
Cosa restava da fare??? Io lo sapevo cosa restava da fare! Dovevo prepararmi e cercare un posto dove andarmene, velocemente, senza più disturbare! Conoscevo il nome della clinica in Svizzera, di cui avevo sentito parlare, dove si può andare per morire sereni. L’indirizzo esatto lo sapevo, anche quanto poteva costare. Era meglio prepararsi per tempo, per non creare problemi a chi restava, per agevolare a loro il percorso . Già la famiglia mi stava seguendo da mesi come fossi un paraplegico, senza farmelo pesare certo, ma quanto poteva durare ancora questa storia?
Non mi ponevo domande su cosa avrebbero detto gli altri, della mia scelta!
Riflettevo consapevole che ogni sera della mia vita, mi ero addormenta pensando che domani mi sarei svegliata perché avrei avuto qualcosa di importante da fare!
A me in quel periodo di importante da fare non restava proprio più nulla! Nulla se non andarmene!
Quindi oltre alla borsa per l’ospedale serviva prepararsi anche mentalmente a quello che sarebbe accaduto dopo.
IL RICOVERO IN OSPEDALE.
Ripensandoci rivivo ancora quella sensazione nel sentirmi da subito in quel reparto come un paziente accolto.
Quel percepire dagli atteggiamenti dei medici e del personale infermieristico, che io ero lì perché a loro interessava capire cosa mi stava accadendo.
Che non dava fastidio se continuavo a vomitare o a sporcarmi perché non arrivavo a tempo in bagno.
Dovrebbe essere una percezione naturale per ogni paziente, quella di sentirsi accolto in una struttura sanitaria, anche perché il paziente in un luogo di cura ci va per bisogno, non per diletto.
Iniziarono subito con radiografie, ecografie, TAC, PET e altri esami più approfonditi. Vedevo medici che venivano a visitarmi con fare professionale, affabili, sorridenti, sereni.
Lo scambio di pareri tra di loro, anche con medici di altri reparti che venivano a trovarmi era quotidiano, si fermavano a parlare con me, si stupivano del fatto che nei ricoveri precedenti nessuno mi avesse fatto o consigliato di fare una Pet o una TAC.
Mi spiegavano che cercavano di aiutarmi con le flebo per idratarmi, poiché la dissenteria non mi dava scampo, ma che io stessa avrei dovuto impegnarmi a mangiare, altrimenti la situazione rimaneva critica. Il personale sanitario si prodigava per medicarmi le parti ferite, cambiandomi le bende intrise di pus più volte al giorno. Una dottoressa iniziò a venire spesso a cambiarmi le bende. Aveva un sorriso dolce, una voce calma. Quando mi medicava cercava di rassicurarmi dicendomi che dovevo farmi forza.
Non chiedevo mai se avessero capito qualcosa, avevo paura di sapere, tra me e me continuavo a pensare: non sono ricoverata in oncologia, quindi non posso avere un cancro!!!
Dopo due settimane la dottoressa B.L. che da ora in poi sarà “ il mio Angelo” una mattina disse: vengo a medicarla stasera quando ha finito le flebo, così parliamo un pò! Quella sera mentre mi cambiava le bende le chiesi: senta, sono qui da più di due settimane, se ho qualcosa di brutto me lo dica perché io lo voglio sapere!
Lei disse con la solita dolcezza: si, abbiamo trovato una grossa massa sulla coda del pancreas, di quasi 5 cm, non abbiamo ancora chiaro cosa sia, dobbiamo fare ulteriori accertamenti ma ormai siamo ad un buon punto. Se lei e d’accordo chiamiamo la sua famiglia, ne parliamo con calma e poi decidiamo cosa fare! Certo dissi, per la famiglia va bene, ma se io ho un cancro, se davvero è un cancro non voglio più vivere! Non voglio diventare un malato terminale! Non voglio finire come mia sorella, come mio zio, come mia zia, come altri parenti stretti che ho dovuto assistere come malati terminali. Mia sorella negli ultimi mesi di vita, continuava a ripetere: nel mio lavoro di infermiera ho visto tanti pazienti andarsene, ma mai avrei pensato fosse così difficile morire! Non volevo morire come mio padre, morto di cancro quando avevo 14 anni.
Sembrava uno scheletro grigio verde, consumato dal dolore e dalla disperazione in quel letto di ospedale.
Lei con calma e il sorriso dolce continuava a parlarmi, dicendomi che non dovevo arrivare a conclusioni affrettate. Ma io ero consapevole che da troppi mesi ero una larva che marciva.
Il giorno dopo convocarono mio marito e le figlie. Nel suo ambulatorio L’Angelo L.b. ci disse che era lì con noi, per tutto il tempo che ci serviva, per rispondere a tutte le nostre domande, dubbi, perplessità. Così ci spiegò che le “piaghette” come io le chiamavo, avevano una definizione specifica.
Si chiamavano in gergo clinico: eritema necrolitico migrante e quasi sempre questo tipo di eritema, si accompagnava al cancro neuroendocrino con il glucagone, tumore rarissimo, poco conosciuto proprio per la sua rarità.
Che questo cancro neuroendocrino stava da tempo dentro di mè ed era arrivato al terzo stadio, che aveva invaso la coda del pancreas, milza, cistifellea e molti linfonodi. Che si sarebbe potuto operare se si fosse scoperto subito, ma io avevo girato 16 mesi per gli ospedali del Veneto a vuoto.
MA CHE C’ERA UNA COSA BELLA E IMPORTANTE DA TENERE IN CONSIDERAZIONE: il fegato non era stato intaccato e non c’erano altre metastasi. Chiesi se una persona può vivere senza tutti quei pezzi nel corpo? Lei si fermò un attimo e disse: non sarà facile, ci vorrà tempo, cambierà la vita, ma se insieme ci impegniamo probabilmente ci riusciamo!
Così avevo perso 16 mesi della mia vita per capire che avevo un cancro!
Non ero diversa da mio padre e mia sorella, anch’io come loro me ne sarei andata in questo modo, perché era chiaro che il mio fisico debilitato non avrebbe potuto superare un intervento così devastante!
Rimuginavo sul da farsi. L’alternativa era tra lasciarsi il andare, tanto sarebbe durata ancora per poco questa agonia, oppure provarci!
Provarci a fare l’intervento, programmando per bene le cose. La stessa dottoressa, l’Angelo L.B. veniva più volte al giorno in stanza a parlarmi. Diceva che l’intervento sarebbe stato lungo, avrebbero avuto bisogno della sala operatoria libera per tutto il giorno, che poteva durare dalle 10 alle 13 ore, che il recupero sarebbe stato difficile e doloroso, ma che dovevo provarci, perché loro erano lì per questo! Lei che dopo il suo turno di lavoro passava sempre con il suo sorriso dolce, iniziò a placare la mia rabbia, spiegandomi che non dovevo odiare, come si percepiva dai miei discorsi, i medici che in tutti quei mesi non si erano presi cura di me approfondendo la malattia.
Il cancro neuroendocrino e ancora poco conosciuto, rientra nei tumori rari, poi il glucagone può trarre in inganno per i problemi che crea sulla pelle.
Questo argomento ho potuto approfondirlo grazie alla prof. PAOLA TOMMASETTI, che ho avuto la fortuna di conoscere in un incontro grazie a NET ITALY, la nostra associazione.
Mi faceva notare che non dovevo portare rancore nei confronti di quei medici che non avevano capito di quale patologia soffrivo. Non l’hanno fatto apposta, non conoscevano la patologia. Non serviva a nulla recriminare. Forse non erano aggiornati, oppure io mi ero rivolta a centri non specializzati per la mia patologia. Adesso capisco che aveva ragione, ma la disperazione di quei giorni difficilmente riuscirò a dimenticarla.
La dolcezza della dottoressa L.B. mista alla sua fermezza mi convinse!
Dissi: lasciatemi andare a casa almeno per una settimana, devo mettere a posto alcune cose e poi ci proviamo!
Adesso sapevo chi era lui! Era un cancro, raro ma sempre un cancro! Potevo lasciarmi andare senza provarci a parlare con lui? Che non era un nemico, una bestia, un mostro!
Era un mio compagno di vita da oltre un anno, che non conoscevo ma era dentro di me! Era stato prima un compagno per mio papà, per mia sorella, per tutti i miei zii, quindi lui era una parte della mia famiglia. Ma gli altri se n’erano andati insieme a lui.
E io??? Potevo provarci a parlare con lui, ad instaurare un dialogo insieme?
Adesso sapevamo, avevamo un nome e un cognome. Io Ornella, lui: cancro neuroendocrino con Glucagone!
Avevo una settimana di tempo a casa per programmare il mio futuro!
Prima di mandarmi a casa mi chiesero l’autorizzazione per fotografare tutte le parti del corpo lesionate “ dall’eritema necrolitico migrante”
Dissero che sarebbero servite per studiare i casi di tumore neuroendocrino con glucagone, patologia poco conosciuta e per questo poco approfondita negli studi clinici.
Mi ricordo quanto mi fece ridere quella situazione: nella stanza eravamo io, l’ Angelo dottoressa L.B. con la macchina fotografica e un suo collega che mi aiutava a reggermi in piedi.
Fotografavano me, un mucchietto di pelle e ossa pieno di piaghette, che non sapeva per quanto tempo sarebbe rimasta in questa terra!

LA SETTIMANA DELLE SCELTE IMPORTANTI.

E così avevo una settimana davanti per mettere a posto le cose. Quelle cose
che per decine di volte mi ero detta : devo farlo! Poi cercavo sempre di
sviare perché tanto, si poteva aspettare! Ma adesso non potevo più
permettermi di aspettare!

Per ricordarmi quei giorni ho cercato nel mio P.C. le vecchie e-mail che
avevo inoltrato.

I messaggi inviati mi ricordano che in quei giorni ho mandato due righe
di saluto a tutte le persone che negli anni avevano lavorato con me,
scrivendo pressappoco questo:

Un grande ciao a tutti voi carissimi colleghi, amici, clienti e associati,

non ci siamo visti e sentiti negli ultimi mesi perché come sapete non stavo
bene.

Adesso non sono più in ospedale, mi hanno dato una settimana di permesso a
casa, per mettere a posto alcune cose. Poi rientrerò per sottopormi ad un
intervento importante.

Se volete sapere come mi sento, vi dico che mi sembra di vivere in un limbo,
senza futuro ne passato!

In questa settimana che mi hanno concesso, ci tenevo a salutarvi,
ringraziarvi per la collaborazione che sempre mi avete dimostrato in tutte
le iniziative che abbiamo fatto insieme.

Voglio dirvi grazie perché è grazie a voi se io sono cresciuta! Grazie
perchè in questi anni, mi avete dato la possibilità di svolgere un lavoro
che amavo e che ancora amo tantissimo. Adesso mi fermo, non so per quanto!

Scrivendo a voi, mi sento come un piccolo naufrago in un mare in tempesta
e, vedo voi imprenditori, come una squadra di capitani coraggiosi, tutti
senza paura!

IO INVECE ADESSO DI PAURA NE HO TANTA! Ma sento che dovrò lottare per
superare gli scogli e poter tornare a riva.

Se avete la fede ditemi una preghiera, ma va bene anche un augurio tipo: DAI
CHE CE LA FAI! Il vostro incitamento mi sarà di grande aiuto.

Ho ancora degli obiettivi da raggiungere, perché sapete che sognare non
costa nulla e poi ,nella vita, bisogna sempre avere un obiettivo da
raggiungere.

Faccio una promessa:

quando torno, non so quando, ci riabbracceremo e brinderemo insieme
dicendo: incredibile… e passato!!! Grazie a tutti. Vi voglio un mondo di
bene! O.V.

P.S. Conservo ancora gelosamente in una cartellina, i fogli stampati delle
centinaia di e-mail che mi sono tornate come risposta a quel saluto. Non
avrei mai pensato che così tante persone mi rispondessero con le loro
parole di incoraggiamento, preghiere e sostegno morale. Non pensavo di
meritarmi tutto questo affetto, amicizia e stima.

LE COSE IMPORTANTI CHE DOVEVO FARE IN QUELLA SETTIMANA..

In quella settimana decisiva, ho avuto il tempo di parlare alle mie
figlie. Ho scritto e consegnato loro una lettera, raccomandandogli di
tenersi stretto il lavoro, perché dal lavoro dipende e dipenderà la loro
autonomia e di conseguenza la forza e la capacità di prendere le decisioni
importanti della vita. Perché se hai un lavoro e la possibilità di
mantenerti, hai anche la facoltà di dire di no e trovi il coraggio di non
abbassare mai la testa.

Ho dato a loro la delega di firma nelle banche, predisponendo in un conto
una cifra con disposizioni chiare e ben definite.

Era importante dire, scrivere e consegnare quelle disposizioni a tutta la
mia famiglia, perché se l’intervento in ospedale non fosse andato bene, io
confermavo anche sottoscrivendolo, quello che da tempo erano le mie volontà:
non avrei mai accettato se fossi uscita incosciente dalla sala operatoria,
nessun accanimento terapeutico sulla mia persona.

Così ho scritto chiaro in un foglio il nome della clinica che si trova a
Zurigo in Svizzera, dove si può andare a morire con dignità, l’indirizzo,
la cifra che sarebbe servita per usufruire di quel servizio, l’importo che
sarebbe servito per il viaggio mio e della famiglia e tutte le mie volontà!

IL TESTAMENTO.

Prima di rientrare in ospedale dovevo e volevo fare il testamento biologico.

Sapevo che fare il testamento biologico, con la normativa vigente nell’anno
2015, non avrebbe tutelato i miei famigliari da eventuali denunce. Su questo
tema la costituzione italiana e ancora ferma, purtroppo!

Le varie sentenze emesse fino ad ora dalla corte costituzione , hanno
sempre finito per processare e quasi sempre per condannare, gli amici e i
familiari che hanno agevolato l’esecuzione del proposito suicida di una
persona. Anche se la persona era un malato terminale sofferente di una
grave patologia, o affetta da malattie irreversibili e da dolori fisici
intollerabili. Per la nostra costituzione questa persona deve comunque e in
ogni caso continuare a vivere!

Non si tiene in considerazione se la persona, in piena coscienza e a
mente lucida, abbia dato disposizioni diverse. In ogni caso la costituzione
dice che:

serve il parere di un comitato competente???

Competente di cosa??? DA CHI E COMPOSTO IL COMITATO COMPETENTE? Da medici,
teologi, obiettori di coscienza? La chiesa cattolica dice: bisogna
accogliere la vita in tutte le sue fasi. La vita!!!! Ma quale vita???

Quella di un malato terminale che vive attaccato ad un sondino per
nutrirsi? O aggrappato ad un tubo di ossigeno per respirare? Sono sempre
stata convinta che non ha senso vivere il tempo per dare più anni alla vita.
Ha un senso vivere per dare vita agli anni! Altrimenti sei un peso per la
famiglia, per le persone che ami, per la sanità! Ma a tutti quelli che
parlano, giudicano, sputano sentenze di condanna per quei malati che
scelgono di morire con dignità chiedo: ma voi avete mai provato ad
assistere per giorni e mesi una persona che amate con una malattia
terminale? Avete mai visto la sua sofferenza! Il loro sguardo che ti
supplica di aiutarlo, che cerca di dirti in tutti i modi:

fammi andare, ti prego, aiutami, fammi andare! Prima di sputare sentenze
e di condannare guardatevi dentro e…..….state zitti!!!

A VICENZA IL “ TESTAMENTO BIOLOGICO”

Sapevo che in centro a Vicenza all’interno della chiesa Metodista della
città, aveva sede l’associazione di Luca Coscioni.

Dovevo prendere un appuntamento e l’associazione mi avrebbe ricevuto,
mettendomi a disposizione un avvocato, che avrebbe trascritto in un
documento le mie disposizioni finali. Dovevo compilare il modulo, arrivare
da loro con i documenti e due testimoni fiduciari, a cui poi il documento
“testamento biologico “ sarebbe stato consegnato.

Ma non sapevo come arrivarci vicino alla chiesa, che si trova in centro in
area pedonale, perché io non mi reggevo in piedi. Mia figlia cercò di
portarmi il più possibile con l’auto vicino alla chiesa, poi tenendomi
sotto le ascelle uno per parte, lei e mio marito mi trascinarono fino
dentro la chiesa e poi nella stanza accanto, dove l’avvocato e i due
volontari dell’associazione Luca Coscioni mi stavano aspettando. Se mi fermo
un attimo a pensare, mi sembra di sentire ancora quell’atmosfera di
serenità che si respirava in quelle stanze.

Era una sensazione di accoglienza, di amore, di comprensione, di empatia
per le persone che soffrono. Mi ascoltarono fino in fondo senza
interrompermi e senza giudicarmi. Non mi davano ragione ne torto.
Trascrivevano quello che io avevo deciso di fare della mia vita!

Certificavano che io chiedevo di morire con dignità!

Non finirò mai di ringraziarli, perché senza fare domande avevano capito!
Ricordo che più parlavo con loro, chiedendo mille delucidazioni sulle
normative in vigore, sentivo una sensazione di serenità che mi cresceva
dentro. Una pace e una voce che mi diceva senza sosta : adesso ci devi
provare!

Adesso puoi andare tranquilla, non hai lasciato nulla al caso! Adesso devi
andare! Sentivo che ero pronta!

Due giorni dopo, era la fine di settembre, io entrai in ospedale per essere
operata.
L’INTERVENTO E: la vita e un’arancia

Alle 7 di mattina di quel martedì 1 ottobre 2015, tutta la famiglia era
già nella mia stanza per salutarmi prima dell’intervento.

Ricordo che mi dissero: tranquilla ci vediamo verso sera!!!!

Quello che poi e accaduto faccio fatica a scriverlo e a ricordarlo. Trovo
aiuto leggendo la cartella clinica sulla procedura dell’intervento:

pancreasectomia distale

splenectomia totale

colecistectomia

asportazione di linfonodi

toracentesi per versamento polmone sinistro.

Di quei giorni passati in terapia intensiva, mi ricordo che intravedevo
ogni tanto i volti della mia famiglia, che al di là del vetro con la mano
mi facevano ciao, cercando di sorridere.

Sentivo un dolore atroce in tutto il corpo se provavo a muovermi di un
millimetro, anche respirare era dolorosissimo.

Ricordo alcuni momenti concitati dove, riemergendo dal limbo in cui
spesso piombavo, mi chiedevo cosa stesse accadendo.

Vedevo persone agitate che mi stavano attorno, le sacche di sangue per la
trasfusioni sopra la mia testa. Avrei voluto parlare ma non potevo.

Ricordo che pensavo con sollievo: forse è finita! Davvero era l’ora di
andare!

Invece dopo una settimana ero in reparto.

Ancora con l’ossigeno per respirare, ancora con le flebo e le trasfusioni di
sangue, ma avevo cambiato stanza e avevo una finestra grande per guardare
fuori.

L’angelo, dottoressa L.B. disse che l’intervento era andato bene, che avevo
avuto dei brutti momenti in terapia intensiva ma che il peggio era passato.

Non so cosa intendesse dire, dicendo che il peggio era passato, io non
riuscivo nemmeno ad alzare una mano e non avevo voce per parlare.

Piangevo in silenzio dal dolore fisico che sentivo in tutto il corpo al
minimo movimento. Mi disse che adesso avrei dovuto sforzarmi per iniziare a
mangiare qualcosa, che gli episodi di vomito avrebbero dovuto scomparire
con l’intervento, che tutto sarebbe andato bene. Passava spesso per
chiedermi come stavo. Arrivò anche una domenica mattina, vestita da
visitatore senza il camice! Le chiesi cosa ci facesse li di domenica
mattina. Disse che dopo la messa era passata a trovarmi, perché doveva
capire cosa dovevano fare per costringermi a deglutire qualcosa. Aveva
detto ai miei che mi assistevano , che potevano andare fuori a prendermi da
mangiare, in modo che se avessi voluto la bistecca a mezzanotte o alle
quattro del pomeriggio, dovevano prendermela pur di farmi mangiare. Ma io
stavo così male che non avevo voglia di nulla.

Non potevo toccare l’acqua perché la pelle mi bruciava per le ferite. Le
piaghette di ( necrosi migrante ) su tutto il corpo non davano segno di
miglioramento. Se provavo ad alzarmi ad andare in bagno facendomi aiutare,
oltre a piangere per il dolore che mi provocava la ferita, ci mettevo così
tanto che alla fine demoralizzata mi rassegnavo a stare a letto, disgustata
di me stessa.

LE GIORNATE NON PASSAVANO MAI IN QUELLA STANZA.

Cercavo di leggere molto, libri quotidiani, anche le persone che venivano a
trovarmi mi dicevano che dovevo farmi forza, che dovevo provare a mangiare
per riprendermi.

Cominciai a pensare che l’Angelo, dottoressa L.B. non me la stava
raccontando giusta, quando diceva che il peggio era passato.

Oppure me lo diceva così, perché doveva dirlo!

Ricordo che chiedevo ai miei di aiutarmi ad uscire dal letto per sedermi
nella carrozzina, per poi farmi accompagnare tra i corridoi di altri
reparti, per vedere dalle finestre una prospettiva diversa da quella
della mia stanza. Il panorama delle colline veronesi stava cambiando
colore. Ero entrata in ospedale nel mese di agosto in piena estate,
adesso stava finendo il mese ottobre, eravamo in autunno e io avevo
passato una stagione dentro quel reparto senza prospettive di
miglioramento.

Se tentavo di alzarmi in piedi non riuscivo a raddrizzarmi. Camminavo
sostenuta da altre persone a cinquanta centimetri da terra, sembravo un
ragno piegato dal dolore. Avevo ancora la ferita aperta. Non si rimarginava
e avevo bisogno di continue medicazioni. Ma poi un giorno…..

LA VITA E UN’ARANCIA!

Un pomeriggio mio marito disse: andiamo giù insieme con la carrozzina e la
flebo, che al distributore di agrumi fanno una spremuta buonissima! Mi
adeguai senza recriminare, sapendo da quanti mesi anche lui passava le sue
giornate dentro quel reparto per stare con me!

Appena la spremuta fu pronta lui mi porse il bicchiere e disse: prova! Lo
guardai respingendo il bicchiere. Sapeva che da quasi due anni non
assaggiavo più nessun agrume. Mi bruciavano le mucose e la lingua come se
bevessi fuoco. Lui disse insistendo: ma prova almeno!

Avvicinai con malvoglia il bicchiere alla bocca e assaggiai. Ricordo che
rimasi immobile e attonita pensando se era vero!

NON SENTIVO LE PAPILLE BRUCIARE!

Non ci credevo! Provai ancora ad avvicinare il bicchiere alla bocca per
berne un altro pò. Non bruciava!!!! Stavo bevendo la spremuta più buona del
mondo e non mi bruciava la lingua! Guardavo mio marito. Non ci credeva
neanche lui. Avevo le lacrime che mi scendevano dagli occhi come una
fontana.

Ridevo, piangevo, ridevo e piangevo ….Stavo tornando alla vita!!!

Non so cosa scattò in me da quel momento! Iniziai a pensare che forse avrei
potuto farcela. Perché se io a quasi un mese dall’intervento ero ancora
viva, forse stava a significare che non era giunta l’ora di andare. Che
dovevo smettere di pensare a quanto era triste e duro stare dentro quel
reparto. Che erano tutti gentili e disponibili, ma che non potevo passare
la vita, continuando a pensare a quello che mi era capitato!

Mi dissi che dovevo darmi degli obiettivi, come quando lavoravo: ogni
giorno un obiettivo da raggiungere!
La spremuta d’arancia che non bruciava più le papille, fu per me come una
iniezione di energia e di vita!

Da quel giorno iniziai ad assaggiare anche altri cibi che non mangiavo da
tempo, per paura delle conseguenze.

Mi accorsi con piacere che non vomitavo più.

La dissenteria c’era ancora, ma sentivo che dentro mi stava crescendo una
sensazione di forza interiore che non provavo da mesi .

IL CORRIMANO AZZURRO E LE SEGHE MENTALI DEL MALATO.

In chirurgia toracica a Negrar dove ero ricoverata, tutte le sale d’attesa
e i corridoi sono dotati di un corrimano azzurro lungo il muro del
reparto. Ad un mese dall’intervento io avevo iniziato a fare qualche passo,
ma sapevo che avrei dovuto riprendere a camminare da sola, senza un
sostegno.

C’era quel corrimano azzurro fuori dalla stanza che sembrava mi dicesse:
vieni, attaccati qui e provaci!

Io lo guardavo dal letto e mi ripetevo che ci dovevo provare ad aggrapparmi
a quel palo! Ma le volte che ci avevo provato, dopo pochi minuti mi
girava la testa, mi bagnavo di sudore e chiedevo di essere rimessa a letto.

MA IL CORRIMANO AZZURRO ERA DIVENTATO COME UNA SFIDA!

Mi arrabbiavo con me stessa! Ero consapevole di essere fifona e codarda,
non volevo ammettere quali erano in realtà le mie paure reali.

Perché la paura che avevo di intraprendere quel viaggio, era il timore che
durante il percorso mi arrivasse improvvisa la botta di dissenteria e di non
riuscire poi ad arrivare in tempo al bagno. Era già successo e…. il disagio
e la vergogna che avevo provato era stato notevole.

Ma perché noi umani ci facciamo prendere da queste paure inconsce, da queste
seghe mentali stupide e senza senso? Se mangiare è un piacere, perché poi
ci sentiamo così nudi e fragili, morendo di vergogna se accadono questi
inconvenienti spiacevoli!

E FU’ IN QUEI GIORNI CHE INIZIAI A PARLARE CON IL MIO NUOVO COMPAGNO DI
VITA: IL MIO CANCRO!

Mi ricordo che gli dicevo: sei stato un protagonista importante nella mia
famiglia e adesso lo sei anche per me! Ti sei preso i miei affetti più
cari, mi hai fatto tanta paura.

Ma io non ti ho mai detto e nemmeno mai pensato che tu sei un mostro, una
bestia, un bastardo, un brutto male! TU SEI UN CANCRO!

Sei stato tanto tempo dentro di me, mi hai fatto stare molto male. Ma non
ci conoscevamo, io non sapevo nulla di tè!

Ma adesso e diverso, sappiamo chi siamo. Come vedi siamo ancora insieme e
io sono cambiata, diamoci la mano e diventiamo amici.

Tutta la mia vita e cambiata!

Ho capito che tutte le cose che avevo e facevo prima, non erano di
importanza vitale come ritenevo fossero! Ho imparato che devo pensare di
più a me stessa, che devo volermi bene.

Facciamo un patto! Cerchiamo di parlarci, facciamo dei programmi se
pensiamo di avere un futuro davanti.

PROVIAMOCI ALMENO!

Stavo leggendo in quei giorni il libro di Tiziano Terzani: Un altro giro di
giostra. C’è una frase nel libro che mi aveva colpito molto, sembrava fatta
per me, per darmi un insegnamento. Me l’ero attaccata al comodino vicino al
letto. Adesso e attaccata alla mia scrivania e dice:

“ La durata della vita e dipendente dalla forza interiore del paziente a da
quanto e ordinata ogni sua giornata”

Così ogni mattina, dopo le sequenze in bagno mi dicevo: io parto! Qualsiasi
cosa accada andiamo! Così iniziai a fare i primi passi attaccata al
corrimano, trascrivendo in un foglietto i traguardi che ogni giorno
riuscivo a raggiungere.

Ricordo che attaccata a quel palo azzurro pensavo sorridendo tra me: ho
passato una vita a prendere appunti leggendo i quotidiani economici. Sono
caduta in fondo ad un abisso, quando scrivevo ogni giorno quante volte
andavo in bagno. Adesso sto scrivendo quanta strada percorro ogni giorno
attaccata ad un corrimano azzurro!

Ridevo e pensavo: significa che sto risalendo dal burrone profondo in cui
ero finita!

Alla fine del mese di ottobre mi mandarono a casa, con l’accordo che sarei
rientrata in ospedale se si fossero presentati problemi.

Nel foglietto che ancora conservo gelosamente e con orgoglio, sta scritto
che negli ultimi giorni di ospedale, io riuscivo a fare 3 giri completi del
reparto al mattino e 4 giri al pomeriggio.

Sentivo che io e il mio compagno eravamo diventati amici e avevamo
costruito un ponte per stare insieme, per intraprendere un lungo viaggio.

L’ARRIVO A CASA.

A casa avevo una infermiera che ogni mattina veniva per medicarmi la
ferita e per farmi le iniezioni. Mio marito in quei mesi mi e stato di
grande aiuto.

Con il ritorno a casa e la ferita ancora aperta, ho imparato quanto io e
tutti noi, non abbiamo la minima consapevolezza della fortuna che abbiamo
quando stiamo bene.

Se stai bene e in autonomia riesci ad alzarti, a correre in bagno, a
prepararti la colazione, a lavarti e vestirti, a prendere l’auto e andare,
hai una fortuna immensa che non ha prezzo! MA NONOSTANTE I DISAGI IO ERO
VIVA!

L ’ Angelo, dottoressa L.B. mi aveva fatto notare quando rientravo in
ospedale per controllo, che le necrosi sulla pelle si erano ridotte in
maniera evidente.

Iniziai a fare settimanalmente della fisioterapia per riprendere a
muovermi. Tutti quei mesi da inferma mi avevano debilitato fino togliermi
totalmente l’equilibrio. Camminavo rasentando il muro e sempre aggrappandomi
a qualcuno negli spostamenti.

Ogni mattina parlavo con il mio compagno di vita, programmando insieme
la nostra giornata.

Passarono i mesi e stava arrivando la primavera. Continuavo ancora a
medicarmi e a cambiarmi le bende su mani e piedi. Ogni mattina mi toglievo
le fasciature e provavo a mettere la mano sotto lo scroscio dell’acqua, per
sentire se la pelle bruciava.

E una mattina, quando come al solito provai a mettere la mano sotto l’acqua,
mi accorsi che la pelle non bruciava più! Non sentivo nessun dolore.

Stavo lì incredula, non ci credevo! Ho pensato che sarei tornata a lavarmi
i capelli senza guanti, a provare la gioia di farmi una doccia e a mettere i
piedi nell’acqua del mare. Iniziai a piangere tenendo le mani sotto il
rubinetto aperto. Piangevo e piangevo incredula, per la gioia immensa che
stavo provando.

Stavo tornando a vivere! Se l’acqua e la vita dell’universo io ero viva!

Sono passati cinque anni. Io sono viva e molto, molto fortunata! Ogni
giorno quando mi sveglio, io e il mio compagno ce lo ripetiamo:

VIVA LA VITA!