Prefazione
In passato scrivere per me è sempre stato un modo per fissare i pensieri e capire in quale
direzione stessi andando: le frasi scritte a penna sui fogli prendevano vita e mi raccontavano
cose che altrimenti avrei faticato a realizzare.
Questa è la mia storia.
Singhiozzi
“Hai il singhiozzo, vuoi un po’ d’acqua?”
Era il 2009 e da qualche mese un fastidioso singhiozzo mi perseguitava nei momenti meno
opportuni: in ufficio, al cinema, in situazioni di silenzio e più me lo facevano notare più
peggiorava. In casa mio marito e mia figlia erano preoccupati, io non ci facevo caso ma per
tranquillizzarli consultai il medico che mi consigliò prima dei farmaci e poi degli accertamenti
strumentali visto che il problema sembrava non volesse risolversi. Avrei voluto ignorarlo, non
stavo male, avevo solo questo fastidio ma il fatto che mio padre nel 2003 fosse morto per un
tumore al polmone e che il primo sintomo fosse stato un singhiozzo insistente aveva messo in
allarme tutta la famiglia. Fecero fronte comune e mi convinsero a sottopormi agli esami
consigliati dal medico. La gastroscopia confermò la presenza di un’ernia iatale e di una
gastrite che credo sia comune a un grande numero di persone. Non avevo niente di speciale e
tutta quella pressione mi stava stancando. Riprendemmo le nostre vite.
Il comprensorio di Mirandola è famoso per la sua rete di aziende biomedicali. La chiamano la
plastic valley perché qui, con un effetto domino strabiliante, negli ultimi anni settanta sono
nate diverse aziende che producono e commercializzano prodotti per dialisi, aferesi,
cardiochirurgia, nutrizione, anestesia. Qui probabilmente ogni famiglia ha un membro attivo
in questo settore. Io e mio marito lavoriamo in aziende concorrenti mentre mia figlia ha fatto
scelte diverse e si occupa dell’infanzia.
Lavoro da sempre, in una di queste aziende nell’area commerciale, ricordo benissimo i miei
primi giorni: dopo poche settimane visitai un centro dialisi e vidi con i miei occhi come erano
utilizzati i prodotti che fabbricavamo. Credo che quel pomeriggio abbia cambiato per sempre
il mio approccio al lavoro e un po’ anche alla vita. In quella stanza di ospedale non ho visto
“clienti”, ma persone, uomini e donne fragili stese su strani letti con bilancia e tubi che
uscivano dalle braccia. Ho visto infermieri scherzare con i pazienti comunque attenti che il
trattamento procedesse per il meglio. Ho sentito il calore di una famiglia. Tornai in azienda,
rassicurata perché quelle persone si sentivano protette oltre che curate.
Purtroppo il singhiozzo non passava, mi prescrissero una ecografia che rivelò una macchia sul
fegato.
“Non si preoccupi signora” disse il medico “sarà probabilmente un angioma, ma è sempre
meglio verificare”. La risonanza non fu risolutiva, così come l’ecografia con il contrasto. Si
decise per un esame più invasivo come la biopsia. Il tempo non passava mai e non ebbi notizie
per un mese poi, finalmente, arrivò il referto che ai miei occhi di profana, sembrò davvero
confuso. I medici mi rassicurarono dicendo che l’esame era negativo e che da vera “emiliana
doc” soffrivo di steatosi. Inoltre la massa era sempre uguale a se stessa per cui non
preoccupante. Fui inserita in un programma di follow up semestrale. Ripresi in mano la mia
vita: lavoro, viaggi all’estero, congressi medici da organizzare.
Mia figlia, intanto, stava diventando donna e regalava, a me e mio marito, grandi soddisfazioni.
All’università scelse di occuparsi dell’educazione dei più piccoli “quelli per i quali c’è ancora
speranza” ci diceva. Per lei forse sognavo qualcosa di diverso, ma sbagliavo e l’ho capito in
fretta guardandola tornare stanca ma sorridente dal lavoro.

Paura collettiva: il terremoto dell’Emilia
Il telecomando è uno strumento che ci dà la possibilità di cambiare canale, di passare
velocemente da un argomento all’altro. Ci dispiacciamo, anche solo per qualche minuto, per
una disgrazia o per una notizia triste, ma basta un click di questo magico strumento … et voilà
stiamo già guardando Sanremo dimenticando ogni tristezza. Questo, a mio parere, è puro
spirito di sopravvivenza, una forma di protezione contro il dolore del mondo che nessuno
riuscirà mai a sostenere da solo.
Nel maggio 2012 il telecomando sarebbe sicuramente stato molto utile: traditi dalla nostra
terra, minacciati dalle nostre case, in balia di un terremoto che pensavamo di non dover mai
affrontare, noi del Cratere della Bassa Emiliana abbiamo fatto quadrato, prima di tutto in
famiglia poi nel quartiere, sul lavoro e in comunità. In quei mesi abbiamo perso i simboli del
nostro passato e le nostre tradizioni ma abbiamo ritrovato uno spirito di solidarietà che la vita
quotidiana con i suoi problemi spesso ci ha fatto dimenticare. Il terrore e la paura sono
sicuramente più sopportabili se condivisi, come ho scoperto successivamente.
La diagnosi
Ho saltato alcuni controlli, ma a settembre la scusa del terremoto non reggeva più per cui fui
fui costretta a presentarmi al follow up. I gastroenterologi del Policlinico di Modena, non certi
della mia diagnosi, decisero di ripetere una serie di esami e alla fine discutemmo
dell’opportunità di ripetere la biopsia. Il mio medico curante non era d’accordo perché
riteneva che “non aveva senso farsi stritolare dagli ingranaggi della sanità, visti gli esiti
precedenti”; mio marito, invece, era preoccupato che soffrissi. Io ero inquieta, non tranquilla,
in cuor mio qualcosa mi diceva di andare avanti e così feci.
Le luci sugli alberi, il freddo pungente e la nebbia della bassa mi ricordavano che il Natale era
già alle porte. Quella mattina lo squillo del telefonino al lavoro mi prese alla sprovvista, ebbi
un colpo al cuore: “La dott.ssa L. ha bisogno di parlare con lei quando può venire a Modena ?”
Io non capivo cosa mi stesse dicendo: ”Me la passi per cortesia, mi faccia parlare ora con la
Dott. ssa L. “ “ No, mi spiace è fuori al momento, va bene per venerdì alle 16:00? “.
Era un martedì di dicembre, come potevo sopravvivere fino al venerdì? La specializzanda che
mi aveva chiamato non era autorizzata a dirmi niente, ma non dicendo niente mi aveva detto
tutto e anche di più.
Mi sembrava di impazzire: molto meglio sapere, così ti manca l’aria .
Corsi da una collega senza riuscire a parlarle, singhiozzando, credo di esserle sembrata una
pazza. Appena mi sono tranquillizzata ho chiamato mio marito, in fondo non sapevo nulla,
non avevo nulla di certo da dire. Dovevo ragionare. Avevo qualche ora prima di tornare a casa
per pensare a cosa fare, per ricompormi.
In famiglia abbiamo sempre affrontato i problemi insieme, non abbiamo mai comprato il
televisore in cucina proprio per quello, per parlare almeno durante la cena: mia figlia il giorno
successivo aveva un esame importante e non potevo farla andare con quel peso. Non serviva a
niente angosciarla senza avere alcuna certezza. Dopo una notte insonne mi alzai determinata
a chiamare la dottoressa per avere informazioni, io avevo il diritto di sapere senza attendere
un minuto in più. Alla fine della mattinata la trovai e, per la prima volta, sentii pronunciare la
parola NET, tumore neuroendocrino. Quelle al fegato erano probabilmente metastasi, il
referto della prima biopsia era un falso negativo. Lo sapevo, io l’ho sempre saputo, nessuna
meraviglia, solo tanta confusione in testa e sensazioni nuove da analizzare.
Ho scritto su un pezzo di carta quel termine sconosciuto e mi sono attaccata al web… poche
notizie e disordinate, la dottoressa mi aveva tranquillizzato ci saremmo viste da lì a due giorni

ma la mia era una patologia indolente ero stata fortunata … tumore e fortuna nella stessa frase
mi sembrava suonassero male.
Alla visita dalla gastroenterologa andai con mia figlia, che nel frattempo non aveva potuto
gioire granché del suo 30 : avevo difficoltà a comprendere quello che mi stava dicendo la
dottoressa, capivo una parola sì ed una no. La stessa cosa successe quando incontrai per la
prima volta il mio oncologo, il Dott. L., mi parlò e spiegò con tono calmo e pacato il tipo di
patologia, il percorso diagnostico da affrontare. Prima però bisognava cercare il tumore
primitivo per poi decider qual era l’approccio più appropriato. Anche in questo caso ebbi
bisogno del sostegno della famiglia. Mio marito ha ascoltato quello che io non riuscivo a
sentire e, a casa, ha risposto alle mie domande.
Prima di uscire dallo studio il Dr L. mi diede il volantino di un’associazione pazienti e mi disse
di andare sul loro sito e di stare attenta a cercare solo informazioni da fonti affidabili. Non lo
sapevo, ma quello è stato un dei momenti più importanti nella mia storia di paziente e di
persona: ero lì, confusa, incredula, sperduta e qualcuno mi stava lanciando un salvagente, mi
stava dicendo che altri si erano sentiti come me e che potevano aiutarmi, indirizzarmi,
consolarmi.
Nel momento stesso in cui hai la certezza di essere ammalato ti senti diverso, non so
spiegarmi perché, ma non sei più la stessa persona, è come se cambiassi dimensione e vedessi
gli altri vivere. Era il 12 dicembre 2012.
Le notti di dicembre sono lunghe, c’è tempo e spazio per immaginare mille scenari.
Come avrei reagito a questo stress, come dire alle persone care quello a cui stavo andando
incontro ? Credo di aver preso questa prova che la vita mi ha imposto come una sfida, ho
sempre avuto la presunzione di sentirmi una quercia, la roccia che protegge le persone che
ama da tutto e da tutti e, non so come, ho sentito crescere in me una grande energia: dovevo
essere forte per loro, non potevo farmi vedere debole, non volevo farmi vedere triste e
raddoppiare la pena in chi già portava un pesante fardello.
La parola tumore fa ancora tanta paura alla gente, che appena conosce il tuo “segreto” ti
guarda in modo diverso e ti tratta di conseguenza.
Questo succede anche agli “amici” che, in alcuni casi, spariscono perché “non sopportano di
vederti soffrire”. Il posto in cui ci si sente maggiormente a proprio agio è l’ospedale, dove
invece vieni trattato come un essere umano e non come se avessi una data di scadenza sulla
schiena. Io non ho mai avuto problemi a parlare del mio tumore: non mi devo vergognare,
non ho rubato, non ho fatto del male … mi sono SOLO ammalata, ma sono sempre io. Mi sono
persino scelta un tumore raro per fare la snob … quello che ha ucciso Steve Jobs (questa frase
fa sempre molto colpo).
In realtà è vero che io mi sono sentita diversa, ma non come intendono “gli altri”, diversa
perché qualcosa cambia a livello mentale. Il pensiero della morte è vero e reale e ti porta a
guardarti dentro in modo più critico: togli gli eccessi, cambi le scale di valori, vedi la vita con
un filtro diverso oppure senza filtro, non lo so.
Il risultato è che ti senti più vivo quando pensi di poter morire, almeno io ho vissuto e vivo
questa realtà.
La paura non è più “collettiva”, non è da condividere, ma è del singolo, la devi affrontare e poi
decidere di andare avanti al meglio delle proprie possibilità.
Nel gennaio 2013, trovato l’intruso, venni sottoposta a resezione dell’ultima ansa ileare e
ad emicolectomia destra e qualche mese dopo, a termo ablazione di metastasi epatiche.
Da allora seguo una terapia mensile con analoghi della somatostatina e sono sottoposta a
controlli regolari.

Io sono stata e sono una paziente fortunata: a parte la difficoltà nell’arrivare alla diagnosi,
che è comune in caso di tumore raro, ho sempre trovato nel mio percorso professionisti di
spessore, uomini e donne che mi hanno tanto e che mi hanno sempre trattato come una
persona e non un oggetto.
Sono fortunata perché la mia regione, l’ Emilia Romagna, offre un alto livello di assistenza e di
qualità di cura. Sono fortunata perché quando ho capito che dovevo smettere di fare domande
stupide al mio oncologo (tipo: quanto tempo ho da vivere oppure a quale stadio sono, etc) e
mi sono affidata totalmente a lui, siamo stati capaci di costruire un‘ottima squadra e lavorare
poi in sinergia. La fiducia reciproca tra medico e paziente è fondamentale, perché un paziente
che si fida è un paziente che collabora e un paziente che collabora può essere curato meglio.
L’impegno
Il Dr. L. , che ha creduto in me più di quanto non abbia mia fatto io, mi chiese nel 2014, se fossi
interessata a entrare e a dare una mano all’associazione pazienti: NET ITALY aveva già perso
due presidenti ed era a rischio chiusura.
Ecco come e dove potevo incanalare tutta la mia forza e le mie energie.
Ho coinvolto Maria Luisa, la moglie di un paziente NET che avevo conosciuto per un caso
fortunato e che ha la mia stessa energia e visione di vita. Insieme ci siamo lanciate in questa
avventura che ci ha portato lo scorso anno alla presidenza (lei) e alla vicepresidenza (io).
Abbiamo lavorato duramente nel 2018: tra le altre cose con l’aiuto della AUSL, della Direzione
Medici di Base e del Policlinico di Modena siamo riusciti a organizzare una serie di tre incontri
ECM nella provincia di Modena dal titolo Tumori rari … ma non troppo, focalizzati sui NET, sui
sarcomi e sui tumori testa collo. Questa iniziativa ha permesso a quasi 500 medici di base che
per primi vedono i pazienti , infermieri e farmacisti di toccare con mano la realtà delle
malattie così dette rare. Se riusciremo ad ottenere anche solo qualche sospetto di malattia
avremo fatto bene il nostro compito.
Il paziente chiede di essere ascoltato, rassicurato, preso per mano, chiede di partecipare,
condividere il proprio percorso terapeutico.
Il paziente è una risorsa importante, basta trovare la via giusta e non è sempre facile.
A volte il paziente scappa, non vuole vedere, non vuole sentire ed allora serve l’aiuto di uno
psicologo che lo aiuti ad accettare la situazione perché senza accettazione non si può
affrontare la malattia.
Oppure serve il confronto aperto con altri pazienti che abbiano già fatto questo percorso e che
abbiano superato, da soli o con un aiuto esterno, questo grande scoglio e vivano più
serenamente possibile la propria condizione.
Oggi
Sono passati sei anni proprio in questi giorni … sembra ieri ma sembra anche passato un
secolo. È cambiato tanto da allora anche se non mi ricordo diversa da come sono oggi.
Ho raggiunto un equilibrio e una serenità interiore nel momento più difficile della mia vita
senza sapere bene come. Forse tutto questo mio darmi da fare è un tentativo per non
fermarmi a pensare. Può darsi sia così ma non è importante, almeno fino a quando questo mi
farà sentire utile a qualcuno.