Una preoccupazione particolare riaffiora nel medico che, come accade più frequentemente di quanto mi
aspettassi, prende l’iniziativa e contatta la sua assistita per chiedere aggiornamenti. Cinzia ha ricevuto la
diagnosi di carcinoma ovarico siero-papillare di alto grado circa 5 anni fa e ad oggi, dopo numerosi interventi
e cicli di chemioterapia (anche con protocolli sperimentali), si ritrova a 48 anni con una ascite neoplastica
refrattaria da metastasi peritoneali. Dalla premessa che viene raccontata emerge l’atteggiamento di una
persona che fa di tutto per resistere: durante l’ultima visita si era presentata con un addome simile a quello di
una gravida all’ottavo mese, con difficoltà a deambulare e indumenti larghi ed elasticizzati. Alla domanda se
avesse male da qualche parte Cinzia aveva risposto: “non ho male, se non mi muovo”. In un secondo
momento, dopo la telefonata, ha insistito per scendere da sola le numerose decine di grandini che separano
il quinto piano del suo palazzo dall’ambulatorio nonostante la disponibilità del medico di passare al domicilio.
La distanza da percorrere era esigua, il che tornava utile visto che le è stata revocata la patente di guida a
causa della sua situazione clinica, ma si trattava sempre di svariate rampe di scale. “Ci metto cinque minuti,
ma ce la faccio!”
Nonostante la malattia, nonostante il dolore che lei riferisce non essere così importante (NRS=4), nonostante
gli stravolgimenti, le visite e i ricoveri lei continua a resistere. La cosa che la infastidisce un po’ è la schiena
che di notte, quando si sdraia per dormine, le fa male. Durante la visita domiciliare si accarezza continuamente
l’addome, disegnando con la mano tanti piccoli cerchi. Forse il punteggio che riferisce, per lei che è da tanto
tempo che soffre, ha un significato diverso da quello che ci si potrebbe aspettare. Il motivo che la sprona, che
sostiene e premia tutti i suoi sforzi sono i suoi figli di 7 e 9 anni. Il suo sogno era quello di poter andare a
prenderli a scuola e stare bene per loro.
Sia alla visita ambulatoriale, sia a quella domiciliare per l’attivazione dell’ADI III cure palliative Cinzia appare
serena. Abituata alle visite non si lamenta mai, risponde alle domande e in nessun modo emerge timore o
rassegnazione dalle sue parole. La consapevolezza che ha maturato in questi anni l’ha portata a intraprendere
un percorso, anche psicologico, di cui sembra soddisfatta.
Ci racconta che all’uscita dell’ultimo ricovero, il figlio più piccolo le è corso incontro per abbracciarla e lei,
istintivamente e senza pensarci, gli ha detto di stare attento a non farla cadere. Una frase detta e dimenticata,
che ha però stravolto il mondo del piccolino: per cinque mesi non ha più considerato la mamma rivolgendole
a stento la parola. I cambiamenti nel corpo di lei forse hanno contribuito a rafforzare questi nuovi atteggiamenti.
Con gli strumenti forniti dalla psicologa, Cinzia e suo marito sono riusciti nel tempo ad entrare in dialogo con i
figli e a ristabilire un equilibrio.
Durante la visita domiciliare tutto procede, si parla, si beve un caffè e si compilano il Piano di Cure Palliative
e i documenti necessari. Gli oncologi dell’ospedale la hanno già informato a grandi linee di alcune opportunità
di cui avvalersi, tra le quali anche l’accesso all’Hospice. Mentre l’infermiera e il medico spiegano più
approfonditamente di cosa si tratta e quali potrebbero essere i vantaggi, emerge il problema delle limitazioni
alle visite imposto dalla situazione pandemica: né il marito, né tanto meno i figli minorenni, potrebbero andarla
a trovare nel caso di ricovero presso la struttura ospedaliera. Solo in questo momento la voce decisa di Cinzia
si sgretola e per la prima volta una lacrima scende come un velo sulla guancia pallida e consumata. “Non
potrei più vederli?” Se da una parte preferirebbe usufruire dell’Hospice piuttosto che “rimanere a casa
stramazzata”, dall’altra non vorrebbe assolutamente privarsi completamente della sua famiglia. Subito ci si
orienta verso un Hospice alternativo, con la possibilità di preparare l’ingresso in anticipo e senza restrizioni
alle visite. Quando si attiva un ADI III Cure Palliative vanno fatte alcune domande al paziente, se cosciente e
in grado di rispondere, e/o ai familiari. Spesso ci si riunisce intorno al letto o ad un tavolo. Un posto dove
sedersi e guardarsi negli occhi, parlare tutti in cerchio (a volte tutti insieme contemporaneamente), appoggiarsi
per scrivere e appoggiarsi per cercare un sostegno in un momento difficile. Alcuni quesiti sono uguali per tutti,
ma possono assumere un peso specifico diverso a seconda del contesto. Con Cinzia tutto procede in assenza
di turbamento. Addirittura, alla domanda se desiderasse essere o meno rianimata in caso di necessità lei
risponde tranquilla “certamente! Si” a riconferma del suo desiderio di rimanere e in controtendenza rispetto a
quanto richiesto di solito da chi inizia un percorso simile. Anche al marito, Peter, vengono poste alcune
domande per cercare di capire la sua prospettiva. Cinzia gli racconta quando ha dolore, quando non ce la fa
più? Solo se lei esplicita come si sente lui può rendersene conto davvero, stare meglio quando lei sta meglio,
aiutarla quando ne ha bisogno. A tratti lo sguardo di Peter si perde piegato in direzione del pavimento.
Silenzioso, osserva e ascolta, ma sembra sempre pronto ad accompagnare e sostenere la moglie nel cammino
che stanno percorrendo ormai da molto tempo. Tutto il tempo che rimane sembra per loro come un dono, ha
assunto un valore diverso rispetto a prima. Poco dopo la fine della visita il medico li incontrerà di nuovo in
strada: avevano deciso di andare fuori a pranzo loro due, insieme, a mangiare un risotto.