TRA SRI LANKA E MALDIVE
La mia storia inizia nel luglio del 2005. Io e mio marito avevamo deciso di intraprendere un lungo viaggio tra Sri Lanka e Maldive, visto che, tre anni prima, in occasione del nostro matrimonio, avevamo dovuto rinunciare alla luna di miele per motivi di lavoro.
Verso la metà di luglio di quell’anno siamo quindi partiti per Colombo.
Un paio di giorni dopo il nostro arrivo, mentre mi lavavo, ho sentito una specie di “pallina”, mentre esercitavo una leggera e assolutamente involontaria pressione sulla parte esterna del mio seno destro. Io sono stata immediatamente sicura di quello che avevo appena sentito: c’era una pallina ben netta e il giorno prima non me n’ero accorta.

Sono sempre stata una persona attenta alla propria salute e, a tratti, quasi ipocondriaca. Nel marzo di quello stesso anno ero andata dal mio ginecologo perché avevo voglia di avere un figlio. Lui mi aveva visitato e non aveva riscontrato nulla di particolare. Mi aveva detto di partire serenamente con la ricerca di una gravidanza: sia la visita ginecologica che quella senologica erano assolutamente negative.

E così feci. Con la spensieratezza dei miei trent’anni, una carriera appena iniziata con vocazione sincera e un matrimonio che funzionava piuttosto bene, mi ero messa con entusiasmo anche in questo progetto di genitorialità, in un’età in cui ancora si pensa che le cose si facciano comunque sempre tutte bene in fila, con coerenza, determinazione e senza alcuna possibilità di deviazione, nemmeno temporanea.

A Colombo avevo un’amica italiana la quale, appena saputo della mia strana pallina al seno, mi propose di fare un’ecografia in un ospedale della città che lei conosceva molto bene. Ovviamente, da persona organizzata quale sono sempre stata, ho accettato subito, ma poi, per una serie di coincidenze, non riuscimmo ad avere un appuntamento in tempo utile. Qualche giorno dopo saremmo partiti per il sud del Paese e avremmo soggiornato in una meravigliosa SPA per rilassarci e riprenderci da un duro anno di lavoro. Né io né mio marito avevamo voglia di rimandare quella partenza. La pallina poteva aspettare. E così siamo partiti con la macchina carica di vestitini per gli orfanotrofi, pieni zeppi dopo lo tsunami che qualche mese prima aveva flagellato la gente del posto. Era tutto troppo bello e troppo importante per poter essere fermato.

La nostra vacanza è quindi proseguita, assieme alla mia pallina e a tutti i pensieri che questa era capace di mettermi in testa. A volte ero presa da panico puro, altre da nervosismo perché non volevo essere disturbata, altre volte mi sentivo positiva nei confronti di quella che avrebbe molto verosimilmente potuto essere una diagnosi accettabile e assolutamente gestibile. Avevo solo trentun anni ed era impossibile che fosse qualcosa di mortale, perché a trentun anni non si muore.

A CACCIA DI UNA DIAGNOSI
Un mese esatto dopo ero, sempre piena di pensieri, sul lettino di un radiologo di una clinica privata della mia città. Non potevo e non volevo aspettare i tempi della sanità pubblica, era già da troppo tempo che stavo in un limbo scomodo e minaccioso.

Questo medico mi fece un’ecografia e mi rassicurò sul fatto che si trattava, con altissima probabilità, di un fibroadenoma, ma comunque mi consigliava un agoaspirato. In particolare lui conosceva bene una dottoressa che lavorava al Policlinico di Modena, che purtroppo però era in ferie (d’altra parte era il 20 di agosto…), ma siccome non c’era fretta potevo tranquillamente aspettare i primi di settembre. Questo medico fu gentile e rassicurante, quasi paterno, ma non riuscì a rasserenarmi.

Appena arrivai a casa, iniziai a pensare a come avrei potuto fare per accelerare i tempi.

Nel frattempo avevo anche visto la mia dottoressa di base, la dottoressa P. che, dopo una visita, mi aveva consigliato una mammografia.

A questo punto, c’erano già troppi medici che mi stavano consigliando di procedere con le indagini. Ho iniziato lì a capire che la faccenda poteva essere seria.

Parlando con una zia di quello che mi stava capitando, mi raccontò che lei conosceva un medico a cui si rivolgeva quando aveva bisogno urgente di consulenze. In quel particolare momento, questo medico aveva “in cura” sua madre, ormai malata terminale. Pensai che era proprio quello di cui avevo bisogno in quel momento: una persona di fiducia che potesse darmi una risposta utile il prima possibile.

Presi un appuntamento con questo dottore, il quale mi ricevette nel suo studio privato, una specie di stanza a piano terra nella casa in cui abitava con la sua famiglia. Questo affascinante signore mi ascoltò molto attentamente, mi visitò e, sempre rassicurandomi, mi propose di fare lui stesso un agoaspirato. Quasi contenta di velocizzare tutte queste manovre che mi erano sembrate infinite fino a quel momento, accettai con gratitudine, comunque un po’ timorosa. Tirò fuori una siringa e aspirò qualcosa dal mio seno, senza che quasi me ne accorgessi. Mentre spalmava quello che aveva aspirato su un vetrino, si sentì già di rassicurarmi, perché quello che poteva vedere non era niente di anomalo. Mi sentii sollevata.

Decidemmo di risentirci non appena avesse avuto gli esiti dell’esame e me ne andai lasciandogli duecento Euro, senza ricevere alcuna fattura.

Dopo qualche giorno, come da accordi, lo richiamai. Sempre cordiale, sempre paterno mi disse che era tutto a posto, che si trattava di un fibroadenoma, che però andava tolto perché avrebbe potuto comprimere la fascia muscolare e darmi dei problemi. Mi disse di chiedere al mio medico di base l’impegnativa per fare questo “interventino”, di cui si sarebbe occupato lui stesso, nel frattempo lui mi avrebbe mandato un’email con gli esiti dell’agoaspirato.

Ingenuamente mi presentai nello studio della dottoressa P. con la stampa di questa mail e la richiesta dell’impegnativa per l’operazione. La vidi contrarre il viso e sbiancare e mi disse: “Butta via tutto e fai quello che ti dico io, adesso. Vai immediatamente a fare una mammografia al Policlinico.” Capii subito che non c’era spazio per discutere e capii subito che ero capitata nelle mani di un ciarlatano. Ero incredula e imbarazzata, in più sentivo di aver tradito la mia dottoressa. Corsi fuori dall’ambulatorio col foglietto dell’impegnativa per la mammografia in mano. Non avevo scelta: dovevo passare per il canale della sanità pubblica.

Il 14 di settembre, dopo una mammografia negativa, sono stata sottoposta ad agoaspirato dalla dottoressa B., al Policlinico di Modena.

Fatico ancora a ripensare a quella settimana in cui ho dovuto aspettare l’esito che avrebbe cambiato per sempre la mia vita e quella delle persone che amavo.

Quell’anno frequentavo il secondo anno della Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario a Parma ed ero lì quel pomeriggio in cui ho ricevuto quella telefonata: “Signorina, buongiorno, la chiamo dal Policlinico per avvertirla che abbiamo gli esiti del suo agoaspirato. Le do l’appuntamento per venire a ritirarlo.” Ma quale appuntamento? Ma che cazzo dice questa? “Scusi,” faccio io, “ma mi può almeno dire se è tutto a posto?” “Eh, veramente io non so niente. Comunque se viene qui, la dottoressa le spiega tutto.” Ma cosa mi deve spiegare?! Possibile che debba prendermi un’altra mezza giornata per andare a prendere un foglio? Ma non possono dirmi qualcosa al telefono? Niente. Mentre penso, quella mi ha già dato un appuntamento e riattaccato. Poveretta, ho pensato dopo, a distanza di tempo, sicuramente lei sapeva cosa c’era scritto in quel foglio ma non poteva dirmelo…

IL MIO CANCRO
Il 22 settembre sono andata da sola al Policlinico, in radiologia, a ritirare l’esito. La dottoressa B. mi ha raggiunta nel corridoio in cui la stavo aspettando in piedi. Aveva il foglio in mano e lo guardava senza guardare me. Mi ha fatto entrare in una stanza buia, piena di computer e, facendomi rimanere in piedi, mi ha detto che avevo il cancro. Lei parlava già della necessità di una consulenza oncologica e io mi ero dimenticata come si facesse a respirare. Ho pensato subito che era impossibile, che c’era sicuramente un errore di lettura, uno scambio di persona, era impossibile che quella cosa stesse capitando a me!

Ho preso una sedia da ufficio, con le ruote, e mi sono seduta senza che nessuno mi avesse invitato a farlo. Su quella specie di sgabello girevole ero ancora più instabile di prima, quella seduta era la metafora perfetta della mia vita in quel momento.

Non ricordo più in quale ordine ho chiamato al telefono mia madre e mio marito, poi mio padre. Sono arrivati tutti. Sconvolti. Insieme abbiamo preso le successive consegne: la risonanza magnetica, un altro agoaspirato (con l’ago più grosso), una consulenza con l’oncologo. Io avevo solo una domanda in testa: quanto mi resta da vivere? Nessun essere umano col camice bianco ha voluto, potuto rispondermi in quel momento.

IL PROFESSORE BUONO
In capo a due giorni, grazie ad un’amica di Milano, avevo già un appuntamento col professor V. Quel professor V. che avevo tante volte ascoltato e ammirato in televisione.

In quei giorni vivevo la mia vita sospesa tra una visita e l’altra, aspettando telefonate, risposte. Cercavo comunque di organizzare quello che mi sembrava caos primordiale.

Avevo già contattato tutti i miei insegnanti, avvertendoli della mia situazione, la dirigente scolastica della scuola in cui lavoravo, per dirle che dovevo rinunciare all’incarico, i miei amici, che tanta parte hanno poi avuto in questa vicenda. In quei giorni non ho mai pianto di disperazione, ma di commozione, per le reazioni che le persone avevano non appena venivano a sapere di me. Tanta gente mi voleva bene e me lo stava dimostrando con azioni pratiche e utili.

V. mi visitò molto attentamente, fu una delle visite più accurate che io ricordi. Alla fine mi disse: “Ti puoi rivestire, stella” e mi diede un bacio sulla fronte. Mi sembrava di avere davanti il mio adorato nonno. Da lì è partito un rapporto di stima e fiducia totali che ha avuto un ruolo decisivo nella sopportazione delle cure.

Il professore mi fece scegliere se fare le terapie a Modena o a Milano e io mi orientai su Modena, per una questione di praticità. Decisi, assieme a lui, di sottopormi prima ad otto cicli di chemioterapia per tentare poi un intervento di tipo conservativo, qualora la massa tumorale (che ormai aveva superato i tre centimetri!) si fosse ridotta grazie ai farmaci. Durante quei sei mesi ci saremmo rivisti un paio di volte per aggiustare eventualmente il tiro.

Il nostro fu un incontro determinante, importantissimo, in un’atmosfera di una dolcezza infinita, sincera, genuina.

Appena fuori dal suo studio non mi sentii guarita, ma pronta finalmente per combattere con tutta la forza che ormai ero sicura di avere.

LA CHEMIO E LA VOGLIA DI MORIRE
Dopo una consulenza oncologica con il dottor F. del Centro Oncologico Modenese, il 7 ottobre ero al Day Hospital oncologico per la mia prima seduta di chemioterapia.

Il primo impatto col DH del COM fu piuttosto fastidioso. È scontato forse dire che partivo da uno stato d’animo disperato, impotente, ancora incredulo, accudita da mia madre e da mio marito ancora più sconvolti di me.

L’accoglienza fu drammatica. Nessun accorgimento psicologico, nessuna premura verbale da parte del personale infermieristico del front desk del reparto: il ritratto perfetto dell’impiegato pubblico che deve sbrigare velocemente delle pratiche burocratiche. Ero annientata da tanta indifferenza e tanta freddezza. Solo dopo molto tempo e con grandi sforzi in terapie di gruppo e individuali sono riuscita a capire (ma mai ad accettare!) certe dinamiche ospedaliere…

Come in una catena di montaggio sono entrata in un circuito che sembrava la macchina della morte e invece doveva essere la macchina della vita. Mi fu assegnata una poltrona dopo essere stata chiamata con nome e cognome all’altoparlante. Ma dov’era la mia privacy, la mia intimità e quella dei miei familiari?! Dove potevo rifugiarmi a piangere di rabbia senza essere vista?! Era esattamente come andare a comprare un etto di prosciutto al supermercato. Inaccettabile, punto.

Io non sapevo cosa volesse dire fare chemioterapia, forse l’avevo visto in qualche film, ma a trent’anni ti senti immortale e quindi non avevo trattenuto nessuna informazione utile.

Prima di sedermi in poltrona ero stata vista da una specializzanda che mi aveva dato un foglio con una lista di farmaci che avrei dovuto prendere in caso di effetti collaterali. E questo, secondo loro, era tutto quello che mi doveva servire.

Mi sono avviata alla poltrona senza sapere che quegli effetti collaterali li avrei avuti tutti, senza sapere che mi sarebbero state somministrate sei flebo diverse, senza sapere che avrei trascorso lì dentro almeno quattro ore, senza sapere che sarei stata lasciata senza risposte a tutte le mie domande. Quando ho visto la mia postazione, davanti alla finestra, ho pianto. Mi sono detta che era un incubo e che volevo addormentarmi e non svegliarmi più. Un’infermiera si è accorta del mio stato emotivo e mi ha rivolto un maldestro commento che voleva essere consolatorio. L’ho compatita pensando che era una poveretta anche lei e dopo mi sono sentita anche cattiva.

Dopo la prima chemio mi sentivo un po’ rinfrancata. Sono uscita dal reparto e sono andata a trovare mia nonna, ricoverata nella struttura accanto. Le ho anche sorriso.

Appena giunta a casa ho iniziato ad accusare un leggero malessere che, col passare delle ore, è diventato uno dei ricordi più insopportabili della mia vita. Mi sembrava che le ossa della schiena mi si stessero spezzando una ad una, ho iniziato a vomitare, tremavo senza riuscire a fermarmi e piangevo perché ero terrorizzata. Nessuno riusciva a calmarmi. Avevo dei farmaci che non sapevo come gestire, ho iniziato ad ingoiare delle pillole, mentre continuavo a vomitare… era tutto disperatamente inutile. Ho di nuovo pensato che volevo morire.

Fortunatamente ci venne in mente di contattare un medico, amico di famiglia, che mi è stato poi accanto durante tutto il percorso e che ancora oggi rimane una delle figure fondamentali della mia vita di eterna paziente. È venuto immediatamente a casa mia ed è stato accanto a me finché non ho smesso di vomitare e di tremare. Non me lo dimenticherò mai.

Dopo la crisi, spossata ma grata, ho iniziato a pensare che avrei dovuto imparare da sola, un po’ col buonsenso, un po’ ascoltando attentamente il mio corpo, ad evitare reazioni così violente dopo le terapie. Altrimenti non sarei mai arrivata in fondo. Me ne mancavano ancora sette. Occorreva capire bene come prendere le medicine.

L’ARCOBALENO DELLE ONKY
Durante gli otto mesi di chemioterapia ho imparato ad accedere al pronto soccorso oncologico e, soprattutto all’inizio del percorso, è stato fondamentale. La dimensione mi sembrava più umana, più intima, meno frenetica.

Fu lì, in uno dei miei accessi, che incontrai un’infermiera che mi consigliò di vedere una psicologa. Le lasciai il mio numero di telefono e dopo un paio di giorni fui contattata dalla dottoressa G. del settore psicosociale del policlinico. Mi disse che si chiamava C. e mi diede un appuntamento al COM, per conoscerci. Iniziammo un percorso a due binari: incontri individuali e partecipazione a un gruppo di autoaiuto di donne che stavano vivendo la mia stessa malattia. A quel punto avevo già fatto la mia terza chemioterapia e mi chiedevo: perché non è successo prima? Perché C. e il gruppo Arcobaleno entrano nella mia vita solo ora?

Con “le ragazze”, ribattezzate poi da me “le Onky”, ci riunivamo ogni due settimane circa. Fui molto colpita nel corso del nostro primo incontro quando Anna, una delle malcapitate, scoppiò a piangere davanti a tutte noi, emerite sconosciute. Era fortunata ad avere un’emotività così spontanea, senza vergogna. Anna era l’unica che non indossava la parrucca, ma portava fieramente una coppola su una testa completamente calva.

Poi c’era Gabry, che stava per iniziare la chemioterapia, e che ha ricevuto, proprio da me, alcune dritte operative per “non morire di vomito”. Ancora oggi mi ringrazia per la mia sincerità. Le dissi proprio: “Starai malissimo, ma non preoccuparti perché passa. Prendi tutte le medicine che ti danno senza aver paura. E telefonami se hai bisogno di conforto”. La abbracciai.

Cristina era la più arrabbiata di tutte e cercava una spiegazione medica a quello che stavamo vivendo. Aveva bisogno di dare la colpa a qualcosa e questo qualcosa doveva avere una base scientifica!

C. G. coordinava questi incontri a cui partecipavano gli esperti: oncologo, chirurgo, dietologa, ginecologo… Ad ogni sessione corrispondeva un tema che veniva sviluppato attraverso la relazione dell’esperto e attraverso le nostre domande o testimonianze.

Noi eravamo arrabbiate ma curiose, disperate ma coraggiose, provate ma unite.

Nel corso di questi mesi ci vedevamo al DH oncologico, in occasione delle terapie, ci cercavamo per darci conforto alle rispettive poltrone, abbiamo mangiato delle pizze assieme, fuori dall’ospedale, bevendo coca cola, perché l’acqua sapeva di medicina.

Anna, Gabry e Cri sono ancora oggi le mie amiche meravigliose.

L’ONCOLOGO TIMIDO
Durante questi importanti mesi ho imparato ad amare un’altra persona che è stata determinante nel mio percorso di vita: il dottor A. F. Mi aveva indirizzato a lui la mia dottoressa di base, di cui mi fidavo ciecamente.

I rapporti tra me e A. non erano frequenti e non sono stati distesi da subito, ma ho immediatamente capito che si trattava di una persona con una competenza professionale eccellente. Lui non era al DH, dove vedevo sempre la sua specializzanda, una ragazza della mia età con poco garbo e probabilmente una predisposizione incerta verso la professione. Non l’ho mai amata, ma ho sempre apprezzato la sua disponibilità: probabilmente imitava il suo maestro.

A. era qualcos’altro. A. era sempre in ospedale, a qualunque ora io andassi a cercarlo, pronto a vedermi, a rassicurarmi.

All’inizio del nostro rapporto era stato molto cauto, quasi glaciale: la malattia era molto aggressiva e prima di pronunciarsi occorreva vedere come avrei reagito alle terapie. Dopo la prima chemio fu lui a visitarmi al DH: toccò il nodulo e fece letteralmente un saltino dicendo: “È più piccolo.” La sua era gioia pura e aveva gli occhi lucidi, non mi stavo sbagliando. Dietro ad apparente distacco professionale si celava un uomo che viveva in mezzo a storie di esseri umani che spesso morivano dopo ver combattuto battaglie dolorosissime. Ho iniziato allora ad ammirarlo ed è una delle persone che stimo di più nella mia vita.

I mesi passavano, le terapie procedevano, le relazioni si sviluppavano e si avvicinava la data del mio intervento.

Verso la metà di marzo rividi il professor V. per prendere accordi e capire in che direzione dovessimo andare.

Ancora una volta mi disse che ero bellissima e che ero stata bravissima a sopportare tutto. Secondo lui, a quel punto, si poteva decisamente optare per una quadrantectomia: le terapie erano state efficaci. Decisi di operarmi a Milano anche se mi sentii di tradire A. Agii d’istinto in realtà, perché V., ancora una volta, mi disse che potevo tranquillamente scegliere perché i colleghi di Modena sarebbero stati assolutamente bravissimi, esattamente come quelli di Milano.

Quando ne parlai ad A. mi sentii morire ma, da grande professionista quale era, accettò la mia decisione dicendomi: “Ci vediamo quando torni”.

L’ISTITUTO EUROPEO DI ONCOLOGIA
Il 18 aprile fui ricoverata nel reparto di senologia dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. L’edificio era nuovo ed assomigliava più ad un aeroporto che a un ospedale. La gente andava e veniva con le valigie, alcuni si soffermavano a guardare enormi tabelloni elettronici agli ingressi, nelle sale d’attesa c’erano stupendi divani in pelle su cui qualcuno schiacciava qualche pisolino…

Il reparto era molto a misura d’uomo: c’erano camere a due letti, tutte col bagno, inframezzate da studi medici. C’erano studi medici ovunque.

All’accettazione del reparto fui accolta da un’infermiera gentilissima che mi presentò ad un’altra collaboratrice che mi avrebbe poi accompagnato in stanza. Mi spiegò per filo e per segno come si sarebbe svolta la giornata, dandomi anche le pause in cui avrei potuto pranzare con la mia famiglia, sempre e comunque accanto a me in ogni momento. Mi sembrava di sognare.

Appena arrivata in stanza trovai due volontarie dell’associazione “Sottovoce”. Queste due signore aspettavano proprio me, con una pila di libri in mano e un sorriso speciale e accogliente. Mi informarono sul loro ruolo e mi dissero che se mi fossi annoiata o se avessi avuto bisogno, loro erano a piano terra a mia completa disposizione.

La giornata fu scandita da una serie di esami e di incontri con l’anestesista e il chirurgo.

Il giorno dopo sarei stata operata e avevo solo una paura: che il chirurgo trovasse i linfonodi intaccati dalla malattia.

IL CHIRURGO AFFASCINANTE
Il mio primo incontro con il dottor O. G. fu nella mia stanza d’ospedale. Si presentò molto semplicemente, dicendomi che sarebbe stato lui a fare l’intervento. In quel momento ero da sola in stanza, ero a letto un po’ appisolata, avevo il fazzoletto in testa (dove diavolo avevo messo la parrucca?!) ed ero senza occhiali. Riuscii ad intravedere (sono vittima di una miopia forte, accidenti!) il suo sorriso aperto, sincero, la sua giovane età (scoprii in seguito che aveva trentotto anni all’epoca).

Mi spiegò nel dettaglio come si sarebbe svolto l’intervento, che cosa avrebbe fatto nel caso in cui avesse trovato i linfonodi intaccati dalla malattia, in che cosa consisteva la radioterapia intraoperatoria. Alla fine mi chiese se avevo domande e io, imbarazzata non so da cosa ed emozionata come una ragazzina al primo appuntamento, gli dissi: “Se ci sono metastasi nei linfonodi, vorrei essere io la prima a saperlo, prima della mia famiglia”. “Va bene”, mi disse lui, “Allora ci vediamo domani, ciao Francesca”.

SOFIA E L’EMOZIONE DI UN ABBRACCIO
Il giorno dopo, verso l’una, venne un infermiere della sala operatoria a chiamarmi. Erano tutti pronti. Con le mie gambe, la parrucca in testa e il pigiama più figo che avevo, mi sono avviata verso il comparto, salutando e rassicurando i miei familiari.

Appena varcata la soglia mi hanno fatto sdraiare su una barella e mi hanno preparata per la sala, chiedendomi di spogliarmi e di togliermi la parrucca. Lì ho iniziato a piangere. È stata una reazione così violenta e così improvvisa che nemmeno io me lo sarei mai aspettata. Le persone che stavano aspettando lì con me erano intenerite dalla mia giovane età e dalle mie lacrime sincere. A quel punto si avvicina una signora che mi abbraccia e mi dice: “Non avere paura, tanto dormi e non senti niente”. Si chiamava Sofia e sarebbe rimasta per sempre nel mio cuore.

IL RISVEGLIO PIU’ DOLCE
Dopo quasi cinque ore di sala operatoria aprii gli occhi in una stanza piena di sole, spossata e con tanta pipì da fare. O. (sì, era proprio lui!) era accanto a me e mi stava parlando: “Francesca, abbiamo finito, è andato tutto bene. I linfonodi sono puliti. Ora riposati”. Ho richiuso gli occhi pensando di essere in paradiso e mi sono goduta da sola quel momento di rinascita, in cui ero grata persino a Dio, che in quei mesi avevo completamente disconosciuto e, a tratti, infamato.

In stanza ho trovato i miei genitori, mio marito. Poi è arrivata Sofia, con tutti i tubi dei drenaggi che uscivano dal suo corpo, fiera e sorridente verso la vita, e mi ha detto: “Hai visto che è tutto finito?”.

Ho iniziato a pensare che tutto questo amore, queste emozioni forti, questi gesti sinceri dovevano essere il mio destino. Iniziavo a dare un senso vero alla mia storia

LA RETE DELL’AMORE
Il giorno successivo ero già dimessa.

La convalescenza a casa è stata breve, ma mi sono sentita stanca a lungo. I miei genitori si avvicendavano senza sosta per accudirmi, assieme a mio marito, che è stata la persona più importante in assoluto in questo percorso.

Dopo qualche settimana ero di nuovo a Milano, perché dovevo proseguire con la radioterapia post operatoria.

Avevo affittato una stanza in un bed and breakfast e passavo le mie giornate in giro per la città, con la cartina in mano, come una turista, alla scoperta di nuovi luoghi. Alzavo spesso gli occhi al cielo, annusavo l’aria e mi commuovevo quando assaggiavo qualcosa di particolarmente buono.

Mio marito veniva spesso a dormire a Milano alla sera, affinché non rimanessi da sola.

Nel weekend tornavo a casa e c’era il rito della pizza a casa mia con i miei più cari amici i quali, durante tutto il periodo della malattia, non mi hanno mai lasciata. Non c’era bisogno di parole: si stava insieme perché c’era bisogno di stare insieme. Io avevo bisogno di loro e loro avevano bisogno di me. Ci siamo voluti bene senza sosta e abbiamo programmato una meravigliosa vacanza in Sicilia, tutti insieme.

In quelle settimane ho conseguito anche la specializzazione all’insegnamento della lingua francese, con il massimo dei voti, alla SSIS di Parma. Sono andata a discutere la tesi e poi sono volata immediatamente a Milano perché avevo la seduta di radioterapia. Vedevo le espressioni incredule dei miei insegnanti, alcuni dei quali mi conoscevano ormai da anni e quindi erano ben abituati alla mia determinazione. Dopo la proclamazione, qualcuno di loro mi chiamò e mi chiese come avevo fatto a concentrarmi nello studio con tutto quello che stavo vivendo. Non ho saputo rispondere, ma sapevo che la loro disponibilità, la loro delicatezza nel gestire la mia malattia, il loro sincero sgomento, il loro autentico dolore per me, insieme alla collaborazione assidua e piena d’affetto di alcune mie compagne di corso, erano stati parte integrante della mia voglia di farcela.

LA VITA NUOVA
Al ritorno da Milano rividi A. F. per fare il punto. Era necessario procedere con le terapie. In particolare avrei dovuto assumere un farmaco ancora sperimentale per ridurre al massimo la possibilità di recidiva. Mi affidai di nuovo a chi ne sapeva molto più di me. A. aveva combattuto strenuamente affinché io potessi avere quelle medicine: la faccenda del protocollo era piuttosto complicata. Firmai diverse autorizzazioni e ricominciai a frequentare il COM ogni tre settimane.

Ormai mi sentivo quasi a casa quando entravo al DH oncologico: conoscevo le facce di tutti gli operatori sanitari, incontravo spesso C., la psicologa, i pazienti erano un po’ sempre quelli. Rimaneva insopportabile l’odore di quell’aria viziata e finta, dei residui di caffè nelle macchinette, del respiro di tutti quegli esseri umani ammalati, molti dei quali con un’inconsapevole, infausta prognosi.

In capo a qualche mese ricominciai a lavorare. Accettai uno spezzone orario su una scuola media di Modena. Spesso facevo una passeggiata per andare al lavoro. Avevo i capelli cortissimi, dodici chili in più e l’anima ferita a morte visibile nel fondo dei miei occhi.

Questo non mi impedì comunque di darmi alle mie nuove classi e l’entusiasmo venne piano piano. Conobbi nuovi colleghi e organizzai, con alcuni di loro, una gita in Francia per i ragazzi.

Mi ero fatta dare il venerdì e il sabato liberi, visto che il venerdì era il giorno della terapia e l’antistaminico che mi veniva somministrato come prima flebo era piuttosto potente e mi faceva dormire per diverse ore. Mi sentivo la bocca impastata, la testa un po’ ovattata, ma avevo voglia di tornare ad una vita che fosse il più possibile lontana dai ricordi di morte che ancora così spesso affioravano prepotentemente nella mia mente.

Nel frattempo mi ero impegnata quindi a finire la Scuola di Specializzazione conseguendo anche l’abilitazione all’insegnamento della lingua inglese.

Stava tornando tutto dentro a binari accettabili. Una vacanza a New York con mio marito mi ridiede la voglia di curiosare tra musei e mostre e la voglia di comprarmi un vestito nuovo.

Tutto procedeva, ma io mi sentivo un sacco vuoto. Avevo rimesso in ordine quello che potevo controllare, ma la paura mi teneva ancora molto cauta verso tutto.

Nel dicembre del 2007 persi, a distanza di una settimana l’uno dall’altra, i miei ultimi nonni rimasti in vita. Quando il 20 dicembre morì mia nonna, dopo una lunga malattia che la teneva lontana da noi ormai da tanti anni, tirai quasi un sospiro di sollievo. Quando però il 27 dicembre mancò mio nonno, barcollai e caddi. Caddi in una depressione fortissima, celata inizialmente da un dolore assordante, colpevole di accessi di pianto che mi toglievano il respiro. Non avevo mai detto al nonno della mia malattia, non volevo turbarlo. E avevo un enorme senso di colpa: non ero riuscita a dargli un bisnipotino, che lui tante volte mi aveva chiesto. È morto da solo, nelle uniche due ore in cui non c’era nessuno con lui all’ospedale.

Dopo qualche mese, nonostante il lavoro e gli impegni famigliari, non riuscivo più nemmeno a dormire.

Tornai dalla mia dottoressa e le parlai della mia depressione. Lei mi rincuorò immediatamente ma mi disse che era necessario vedere presto una psicologa ed iniziare una terapia, eventualmente supportata da qualche farmaco.

Tramite la dottoressa D. R., riuscii ad avere il nome di quella che sarebbe diventata la mia terapeuta: P.

Grazie all’accurato lavoro fatto con lei e alla mia voglia di farcela, ho visto presto l’uscita dal tunnel nero della depressione.

Con P. feci un gran lavoro di accettazione e di presa di coscienza che mi hanno resa la persona che sono oggi. Dal difficile riconoscimento delle emozioni all’accettazione di esse, dalla possibilità che ho imparato a darmi nell’esprimere il dolore o la gioia, attraverso il pianto o il riso, al dare un nome e una forma ai miei bisogni fondamentali.

Nel giugno di quello stesso anno sono tornata sul palcoscenico, quasi incredula. Avevo ripreso molto cautamente le lezioni col mio vecchio gruppo di danza spagnola, anche se mi sembrava che ormai il cervello fosse totalmente incapace di comandare i piedi. E invece, con tanto sforzo, avevo imparato un paio di coreografie, studiando con una compagna di corso in una delle mie mattine libere.

Tornare a ballare davanti ad un pubblico è stato così forte che quella sera, dietro le quinte, ho pianto di felicità, pensando ai miei nonni che forse mi stavano guardando dal cielo. “Io danzo ancora”, ho pensato mentre entravo in palcoscenico. In platea, i miei amici assistevano commossi.

Il 5 ottobre 2013 sono nati Alessandro e Laura, i miei figli. Il percorso per diventare madre è stato lungo, difficile, doloroso, ma illuminante e denso di emozioni vere.

Ora, a 41 anni compiuti, mi sento in grado di fare un bilancio attendibile di una vita ricca e, se mi guardo indietro e poi guardo i miei figli, dico serenamente che rifarei tutto, perché dovevo avere loro.

Il mio rapporto con i medici rimane costante, sia per i controlli periodici sia per eventuali consigli in caso di dubbi o paure che ancora, e credo ormai per sempre, faranno parte della mia vita.

Mi capita ancora, in ambito ospedaliero, di scontrarmi con persone sgarbate, inadeguate al loro ruolo, cui vorrei urlare che ogni essere umano sta combattendo una battaglia di cui non sappiamo nulla, quindi dovremmo essere sempre gentili con tutti. Ho fortificato molto il mio carattere in questa ultima fase della mia vita, quindi mi è capitato di muovere qualche osservazione in più sull’inefficacia o l’inadeguatezza comunicativa ai medici, ma ho ancora molto spesso la sensazione di essere considerata una persona isterica o maleducata. In realtà sono solo molto arrabbiata, o incredula o esterrefatta da tanta pochezza umana nelle relazioni e nei rapporti con i pazienti. Penso che una persona che decide di fare un mestiere che ha come materia prima gli esseri umani, dovrebbe innanzitutto essere empatica, capire chi ha di fronte, guardare negli occhi l’interlocutore, essere capace di ascoltare, di osservare le emozioni, i movimenti, i gesti.

Credo che un giorno racconterò ai miei figli la mia storia. D’altra parte, se fosse stata diversa, loro non esisterebbero… Cresceranno sapendo che la vita è molto bella e preziosa, ma anche molto breve. Non mi stancherò mai di ripetere loro che non cercare la felicità è un grave peccato dell’essere umano, il più grave, probabilmente. Dirò loro che questa felicità è fatta di tanti piccoli momenti semplici, veri, e che il ricordo di questi momenti ci serve nei periodi bui, presenti nella vita di tutti gli esseri umani. Vivranno consapevoli del fatto che gli obiettivi sono tutti perseguibili, ma che spesso la strada per arrivare al loro raggiungimento non è lineare, ma serve qualche deviazione, talvolta anche molto dolorosa e lunga. Mi impegnerò a fondo affinché vedano e accettino le fragilità degli esseri umani come risorsa e non come difetto. E infine insegnerò loro a riconoscere e a dare un nome alle emozioni, preziose ed indispensabili compagne di vita, che ci rendono persone autentiche, vere, uniche.