È passato molto tempo dall’ultima volta in cui ho scritto qualcosa, forse l’ultima volta è stata alle superiori, poi mi sono sempre e solo ritrovata a dover scrivere a medici (quindi e-mail brevi e schematiche) e immersa completamente in formule matematiche dovute al mio indirizzo universitario. Cercherò di non addentrarmi troppo nei dettagli, come sono solita fare per deformazione professione, e di rendere il mio racconto il più comprensibile possibile.
Era il 20 Maggio 2013 esattamente un anno dopo il terremoto e mancava un mese alla mia maturità. Da brava studentessa avevo iniziato a studiare in modo assiduo in preparazione dell’esame, sperando di riuscire ad ottenere un buon voto e non volevo essere assolutamente disturbata… avevo il mio caratterino.
“Che mal di testa che ho” mi dice mia madre.
“Vai a prendere un’asprina, cosa vuoi che ti dica” rispondo io sapendo che mia madre ha sempre sofferto di mal di testa e io volevo studiare.
Torna nella stanza accanto alla mia, il bagno, dopo aver preso un’aspirina e le chiedo dall’altra stanza “Tutto bene?”. Non sento risposta, ma penso semplicemente non mi abbia sentito.
BOOM. È lo sgabello del bagno che si sposta di colpo e io che mi innervosisco pensando che mia madre si era messa a pulire.
GLU,GLU… lo stesso rumore di quando con la ventosa si cerca di disostruire il condotto della doccia.
Alterata per tutto il casino che mia madre stava facendo prendo i fogli in mano e mi dirigo verso il bagno per arrabbiarmi e per chiederle di fare meno confusione ma, appena apro la porta, la vedo atterra immobile. Era lei che cadendo e sbattendo la testa aveva fatto il primo rumore ed era lei che gorgogliava.
Mollo di colpo i fogli che si cospargono a terra come nelle migliori scene del crimine e mi accascio su di lei, le parlo e lei mi risponde. “Bene” penso. Però è immobile. Prendo la sua testa tra le mani la sollevo e la giro leggermente per permetterle di rigurgitare il pranzo e per liberarle le vie aeree.
“Stai con me, adesso chiamo l’ambulanza non ti preoccupare” le dico.
“Perché? Non ce n’è bisogno.” Risponde biasciando.
“Ma ti sei vista? Sei immobile a terra che sanguini da un taglio in testa, perdi sangue dalla bocca e vomiti!” esclamo.
“117 Guardia di finanza” Avevo sbagliato il numero nella confusione. Riaggancio e telefono al 118, stavolta riesco a spiegare perfettamente la situazione, talmente bene che avevano già allertato la sala operatoria a Baggiovara.
Tremavo come una foglia e la sorreggevo. Prendo un asciugamano e le appoggio la testa sopra, apro gli scuri della finestra e urlo “Aiuto! Aiuto! Qualcuno venga ad aiutarmi!”. Una vicina di casa mi sente urlare e corre subito da me ad aiutarmi e ad accogliere l’ambulanza.
Nel frattempo, le sorreggevo la testa, le parlavo e tremavo. Arrivano i ragazzi dell’ambulanza, parlano con lei e le chiedono come si chiama, che giorno è e dove abita. Risponde in modo coerente “Ottimo” penso.
La portano via, solo dopo vengo a conoscenza del fatto che è entrata in coma in ambulanza.
Un vicino di casa mia accompagna in ufficio a Carpi da mio padre dal momento che non riuscivo a contattarlo poiché il suo telefono non prendeva la linea e io ero evidentemente sotto shock agli occhi degli altri.
Corriamo all’ospedale di Baggiovara dove quando arriviamo e chiediamo di lei tutti ci guardano come per dire “poverini”, “cavolo”. La situazione non doveva essere semplice.
Passiamo da una sala d’attesa all’altra per poi arrivare infine nella sala di attesa di Neurorianimazione dove intorno alle 23 di sera (l’evento è iniziato alle 16/17 di pomeriggio) ci viene detto che aveva avuto un ESA, ovvero un’emorragia cerebrale talmente importante che non sapevano se sarebbe sopravvissuta alla notte.
Tutti cominciano a piangere ma io no, ancora non realizzo.
Ci fanno entrare nella stanza, lei tutta fasciata, piena di tubi, piena di schermi che suonano e io inizio a singhiozzare, a piangere. Realizzo.
Andiamo a casa e la sera preghiamo che non ci chiamino per dirci che sia morta. Speriamo e preghiamo ogni sera. Ci viene detto che i primi 12 giorni sono i più critici, sono i giorni in cui può avvenire quello che si chiama “Vasospasmo” ovvero un particolare fenomeno per cui il sangue fuoriuscito rimasto tra cervello e la membrana della dura madre diventa tossico per le vene causando una vibrazione delle stesse e provocando un ictus. Sembra reagire bene per i primi giorni, non aveva avuto praticamente alcun danno, ma esattamente al 12 giorno arriva lui, il VASOSPAMO che le provoca un enorme ictus in più di metà del cervello che non riescono a marginare in tempo.
I danni sono notevoli: non potrà mangiare da sola, non potrà muoversi, non potrà parlare.
Ad un certo punto visti i danni viene tracheotomizzata per permetterle di respirare e di non deglutire in modo sbagliato, poi viene tolto il coma farmacologico e iniziamo a sperare che apra gli occhi. Le prime volte li apre e rimane con lo sguardo fisso, iniziamo a capire che lo sguardo è uno dei suoi unici mezzi di comunicazione.
Dopo 30 giorni viene trasferita al reparto di Neuroriabilitazione di Correggio, dove rimarrà un anno. Un anno durante il quale infermieri, OSS e fisioterapisti capiscono che comunica, capiscono che è cosciente, ma un anno durante il quale i medici la considerano in stato di minima coscienza e la lasciano urlare dal male riempendola di medicinali inutili (benzodiazepine) con l’unico obbiettivo di sedarla. Infondo non capisce, dicono.
Un anno durante il quale noi dicevamo loro cosa lei volesse esprimere e un anno durante il quale loro pensavano che noi c’inventassimo le cose, che forse eravamo i soliti illusi. Durante quell’anno ha subito tre interventi: posizionamento del sondino per nutrirsi (PEG), cranioplastica e posizionamento valvola idrocefalica.
Dopo un anno, è tornata a casa con me e mio padre. Finalmente era casa, ma dovevamo ancora liberarla dalle infezione prese durante l’ospedalizzazione, aveva ancora ancora la tracheotomia e le crisi dovuta al dolore erano fortissime.
Nonostante le crisi dovute al fortissimo dolore, che nessuno capiva a cosa fossero dovute, dopo mesi di esercizi di logopedia fatti io e lei, perché la logopedista dell’ospedale che era venuta solo un paio di volte a casa nostra non credeva veramente che lei capisse e quando urlava si impauriva e invece di insegnarci esercizi di logopedia preferiva cercare mezzi di comunicazione alternativa, siamo riusciti a convincere la logopedista a portarci dall’otorinolaringoiatra per fare la videoscopia e controllare se la deglutizione fosse
funzionale.
“Non so come faccia ma deglutisce correttamente, le corde vocali sono libere” La sentenza dell’otorinolaringoiatra. Devo ammettere che probabilmente anche io avrei fatto fatica a deglutire con un sondino infilato nel naso, un abbassalingua in legno in bocca, del gel da ingoiare e la cannula tracheale, non so come abbia fatto ma ero veramente orgogliosa di lei. A questo punto sparisce completamente la figura della logopedista.
Prenotiamo un successivo incontro con un altro otorinolaringoiatra dove viene sostituita la cannula chiusa con una fenestrata per permettere all’aria di passare più liberamente tra che corde vocali e poter sentire i primi vocalizzi e ci viene detto di tornare dopo due settimane per rimuovere definitivamente la tracheotomia.
Devo anche dire che in quel momento abbiamo incontrato un medico particolarmente umano che avendo vissuto personalmente una situazione simile ha capito la nostra voglia di farla migliorare e il fatto che lei fosse pronta per questo grande passo.
All’incontro dopo due settimane però non c’era più lui, ma un collega. Avevamo la lettera dove era indicato che lei era lì per rimuovere la tracheotomia. Il medico si rifiuta, dicendo che non si vuole prendere la responsabilità. Ci arrabbiamo veramente molto, perché dopo tutte le prove fatte e il nullaosta del precedente medico, doveva farlo. “Io lo faccio dato che insistete, ma entro sera tornerete indietro con lei che sarà in crisi e che rischierà di morire soffocata!” ecco con che parole il medico ha rimosso la tracheotomia e ci ha liquidato. Tutto detto davanti a lei, come sei lei non capisse quelle parole.
Un pomeriggio passato con il dito inserito nel saturimetro, un pomeriggio con lei che piangeva per la paura, dopo aver sentito le parole del medico, e io accanto a lei tutto il giorno per tranquillizzarla “Sei brava non avere paura” ,“ce la fai”, “respira con calma e va tutto bene”.
Le maledizioni che ho lanciato a quel medico penso di saperle solo io, se solo fosse stato più umano…
Dopo diverse settimane, visto che mia madre aveva superato la prova, torniamo in ospedale suturare la tracheostomia dato che non si richiudeva da sola.
Nel frattempo le crisi continuavano e la teca ossea autologa, inserita per chiudere la craniotomia, si era riassorbita per cui abbiamo dovuto tornare nuovamente per inserire una protesi ceramica al fine di mantenere la giusta pressione intracranica ed una adeguata pressione.
La teca viene montata, sembra andare tutto bene ma… la pelle sopra alla teca si lacera e la protesi fa infezione. Torniamo nuovamente all’ospedale e cercano di suturare la pelle facendo un’adeguata pulizia della zona infettata. L’infezione ritorna e devono smontare la protesi, ma stavolta non c’è più pelle disponibile per inserirne una nuova e per questo motivo, ancora oggi, quella parte di cranio è aperta.
Durante questi numerosi ricoveri le crisi per il dolore sono sempre fortissime. Cominciano a somministrarle morfina, ma durava solo un paio di ore, oppiacei, ma anche quelli non avevano l’effetto sperato. Ci mandano una neurologa che le fa due domande “Riesci a girare la testa da questa parte? “ Riesci a muovere questo?”
Ma lei urlava dal male, talmente forte da essersi slogata la mandibola una volta, non la considerava.
“Signorina cosa vuole che le dica? Non vede che sua madre non è presente? Urla per il disturbo neurologico causato dall’Ictus io non posso farci niente” La sentenza della neurologa dopo 5 minuti. “Mia madre è cosciente e capisce, ma non riesce a fare quello che lei chiede perché sente male alla testa!” rispondo prontamente.
“Signorina io so fare il mio lavoro e lei deve capire che quello che ha avuto sua madre può causare questo comportamento” ribatte.
“Ma secondo lei, se fosse “fuori di testa” come dice lei riusciremmo a tenerla a casa con noi?” rispondo in modo provocatorio.
La psicologa se ne va senza dire niente.
Finalmente dopo qualche giorno viene mandata nella nostra camera ospedaliera la Dott.ssa M. Terapista del dolore.
“Come comunica sua madre? Può interpretarmi le risposte lei?” Mi chiede con fare gentile.
“Comunica con gli occhi. Certo che posso tradurre!” Rispondo entusiasta. Finalmente un medico che credeva a quello che noi avevamo sempre affermato: che lei comunicava.
Dopo un attento interrogatorio la terapista del dolore afferma “Le risposte che ha dato avevano tutte un senso e sono perfettamente compatibili con una patologia: nevralgia del trigemino”.
Ci prescrisse alcuni farmaci oppiacei antidolorifici per placare la fase acuta del dolore e unitamente ci prescrisse degli antiepilettici. Da lì, mese dopo mese, i dolori cominciarono ad attenuarsi. 4 anni prima che qualcuno ci credesse e ci desse una terapia per placare quel dolore.
Nonostante il forte dolore lentamente si stava attenuando, mia madre continuava ad avere mal di testa. Scriviamo al neurochirurgo F., con il quale eravamo in buoni rapporti, per chiedergli una visita a causa dei forti e frequenti mal di testa, dove durante l’incontro decidiamo insieme di provare ad aumentare l’aspirazione della valvola idrocefalica.
Torniamo a casa ma già il giorno dopo il mal di testa diventa sempre più frequente. Chiamiamo in ospedale e chiediamo a F. se ha tempo di riceverci perché la valvola tarata in quel modo aveva peggiorato la situazione. Erano le 20 di una domenica sera quando, dopo esserci confrontati, decidiamo di posizionare al minimo la valvola idrocefalica visto che aumentando l’aspirazione il mal di testa era aumentato. Quella è stata l’ultima volta che siamo stati nel reparto di neurochirurgia, dopo quel giorno le sue condizioni di salute si sono sempre più stabilizzate.
Dato che il quadro clinico di Lorenza, mia madre, si stava stabilizzando inizio nel 2018 a farle esercizi passivi di logopedia che mi erano stati insegnati da diverse professioniste nella varie “gite fuori porta” come chiamo io le visite fatte in altre regioni. Provo ogni tanto a darle qualche piccola puntina yogurt o budino ogni tanto, ma vedo che non è ancora pronta. Nell’Agosto 2018, mentre era in ferie la nostra assistente domiciliare, dato che ero a casa 24h/24h e potevo monitorarla con attenzione decido di provare ad introdurre i primi cucchiaini di budino. Capisco che il problema non è a livello di deglutizione ma psicologico, capisco che non vuole deglutire o inizia a tossire ancora prima di mangiare perché ha paura… e un po’ la capivo. Ha trascorso più di 5 anni senza mai mangiare.
Inizio a darle i primi cucchiaini di budino e ad incoraggiarla con frasi tipo “Brava”, “lo so che ce la puoi fare”, “Stai calma e respira bene, voglio il tuo bene non ti farei mai fare qualcosa se non sapessi che sei pronta”. Non so quanta acqua ho bevuto in quel mese perché’ ad ogni suo boccone, deglutivo anche io l’acqua per farle vedere come facevo, aprivo la bocca e le mostravo che movimenti faceva la mia lingua per indicarle dove sbagliava e come correggersi.
Le prime volte per magiare lo yogurt dentro i vasetti per bambini impiegavamo 1 ora! Le sue capacità sono migliorate sempre di più, anche se a volte ha ancora dei mini-attacchi di panico, e ormai sono più di sei mesi che tutti i giorni a pranzo riesce a mangiare per bocca alimenti frullati. Piatti che mi impegno io a preparare ogni sabato (per 4 ore) e che frullo per poi immagazzinarli nel freezer. In questo modo riesce a mangiare tutti i giorni un po’ di “cibo vero”: una porzione di frutta o verdura e una di carne, pesce o risotto. Attualmente mangia ¼ o ½ di alimentazione attraverso la bocca e il restante ancora tramite sondino, però già essere arrivati fino a questo punto dopo tutte le frasi dette e scritte dai medici “Non potrà mai più mangiare, neanche a scopo di stimolo!”, lo reputo un traguardo!
Unitamente all’aumento della sua capacità di deglutire, sono migliorate anche le sue capacità fonetiche. Negli anni precedenti riusciva ad emettere solo un suono, ora il suono viene modulato fino ad arrivare a dire “No”, “nanna”, “mamma”, ”buono”, “eeeeh” e “bravo”.
La strada è ancora in salita e io continuerò a farle logopedia, fisioterapia e a motivarla. Non abbiamo ancora tagliato il traguardo (e penso che sia ancora molto lontano) ma siamo riusciti a percorre un bel pezzo di strada nonostante le mille difficoltà.
Il suo sorriso è la mia motivazione e la mia motivazione sono i suoi passi avanti. Oltre a questo, io cosa faccio?
A febbraio ho concluso il mio primo percorso di laurea triennale in Ingegneria Elettronica e sono riuscita a portare Lorenza alla mia cerimonia di laurea. È stato faticoso studiare e stare con lei ma ce l’ho fatta. Cosa mi piacerebbe fare ora?
La mia speranza ora sarebbe quella di poter continuare gli studi, visto che attualmente Lorenza è stabile, ma purtroppo al momento non è possibile in quanto l’università me lo impedisce. Ma questa è un’altra storia.