Narrazione di Linda, caregiver formatrice, realizzata nell’ambito del Corso di Perfezionamento in Metodologie didattiche per l’insegnamento della medicina con i pazienti formatori

Emma è nata il 19 dicembre 2010.

Oggi ha 6 anni e mezzo ed è una bimba felice, circondata da amore, da persone che le vogliono bene e che insieme a lei gioiscono ogni giorno per le sue piccole grandi conquiste.

Emma è affetta da una malattia rara senza nome, per cui fa parte del gruppo delle Non Diagnosi; non sappiamo il nome del suo Uomo Nero e non sapere il nome non ci aiuta a capire quale sarà il suo futuro.

La disabilità di Emma è stata una doccia fredda per tutti noi, anche se definirla doccia non è corretta, perché ci siamo arrivati pian piano noi familiari a capire che Emma è una bimba speciale. 

Nessuno ce lo ha mai detto in maniera chiara. 

La gravidanza di Emma è stata molto serena, senza problemi, non me ne sono praticamente accorta, anche perché il mio tempo era riempito dal mio primogenito Alessandro, che all’epoca aveva 5 anni.

Emma è stata una meravigliosa sorpresa della vita, me l’ha regalata in sogno mio nonno paterno, al quale ero legatissima e che è venuto a mancare ormai 15 anni fa; ricordo come fosse adesso che mio nonno mi portò questa bimba in una valigia marrone e mi disse che avrei dovuto prendermene cura.

Emma decide di nascere di sera tardi, da parto spontaneo, presso il centro nascita al Policlinico di Modena. È venuta al mondo in circa un’ora e mezza, poi per me black out.

Non ricordo cosa accadde, ricordo solo che io mi svegliai a tarda notte sul lettino ed Emma non era con me; mi dissero che c’erano stati dei problemi durante la spinta finale; io ero svenuta perché avevo perso troppo sangue ed Emma aveva un giro di cordone intorno al collo, era cianotica in volto, non si muoveva e avevano dovuto portarla via per controlli.

Emma la sono andata a prendere al nido la mattina dopo e appena la presi in braccio e la guardai negli occhi capii che non sarebbe stata facile la sua vita.

Emma la portammo a casa 15 giorni dopo la sua nascita, il 4 gennaio 2011 giorno del compleanno del suo papà, perché al terzo giorno di ospedale si accorsero che il cuore aveva un battito in meno.

Ricordo il pianto e il dolore di doverla lasciare in ospedale, soprattutto sotto il periodo di Natale.

Pensavo a lei notte e giorno. Mi svegliavo di notte ogni 3 ore per tirarmi il latte in modo da poterglielo, portare in ospedale e allattarla col biberon; ricordo anche che ero la prima ad arrivare in reparto e l’ultima ad andare a casa.

Una volta giunta a casa Emma, credevo che il peggio fosse passato, ma quello fu solo l’inizio.

L’inizio, perché una volta giunta a casa e ripresa la mia vita familiare, i miei familiari mi comunicarono che nel mese di dicembre avevano scoperto che la nostra famiglia dal ramo paterno è portatrice e affetta da una malattia rara chiamata adrenoleucodistrofia, e che avrei dovuto sottoporre Alessandro, il mio figlio più grande, ad accertamenti per capire se anche lui fosse affetto dalla malattia.

Questa notizia non mi sconvolse, la affrontai come una sfida della vita, pronta a combattere se necessario.

Emma faceva fatica ad alimentarsi al seno, era apatica, soffriva di rigurgiti, non piangeva e soprattutto non cresceva; la sua testa non cresceva e questa per me era diventata una vera ossessione.

A 3 mesi inizi a pensare che qualcosa non andava, ma il pediatra mi diceva di stare serena, di non preoccuparmi, di darle tempo.

Tempo. Per me il tempo era diventato un nemico. Quanto tempo? Tempo per cosa? 

Nel frattempo portai Emma da un noto gastroenterologo di Sassuolo, il quale mi consigliò di smettere l’allattamento (che intanto era passato da materno ad artificiale) e passare allo svezzamento.

A 5 mesi Emma iniziò le sue prime pappe, ma il problema dei rigurgiti non si risolse e soprattutto divenne evidente la sua difficoltà a mangiare e deglutire. 

Passavo il tempo a raccogliere vomito e darle da mangiare. 

Emma ha 6 mesi di vita e diventa per me evidente la sua difficoltà motoria, la sua testa piccola, la sua apatia rispetto al mondo esterno e soprattutto il fatto che tutto il suo lato sinistro fosse fortemente ipotonico; ma ancora tutti mi dicevano di darle tempo; quel tempo che intanto sentivo come un alito sul collo in attesa del risultato degli accertamenti di Alessandro per l’adrenoleucodistrofia. 

In quel periodo feci una visita ginecologica di controllo al Policlinico e li la provvidenza mi mandò un angelo, vestito da infermiera. Durante la visita chiacchierammo del più e del meno e raccontai di Emma. Dopo circa 15 minuti l’infermiera venne da me con un appuntamento per la settimana successiva presso il follow up della neonatologia di Modena, dalla dottoressa L.

È da sottolineare il fatto che è un’anomalia che un esterno venga inserito nel follow up, di solito rientrano i bimbi che sono stati ricoverati in NIT; finalmente qualcuno mi credeva.

Facemmo gli accertamenti del caso, seguiti dalla dottoressa L., secondo angelo custode; ricordo ancora quando mi telefonò per comunicarmi il responso della Risonanza Magnetica: ero in balcone in un pomeriggio di sole e mi disse che evidenziava anomalie della sostanza bianca e che era urgente un colloquio.

Ricordo le lacrime, le uniche che io abbia mai versato per Emma. Ricordo la solitudine di quel momento, fuori, da sola in balcone, nessuno a cui appoggiarmi, Emma che dormiva nella culla. Mi accasciai a terra e il mio corpo fu invaso da un tremore inarrestabile e lacrime tante.

Poi mi alzai, mi ricomposi e chiamai mio marito al lavoro, comunicandogli la notizia.

Quell’istante segnò la nostra nuova vita.

Nel periodo precedente avevo portato Emma a una visita da una neuropsichiatra di Modena, che decise di prenderla in carico, asserendo che Emma era solo pigra.

Tuttavia la dottoressa, durante l’incontro successivo, ci consigliò di rivolgerci a un centro esperto di malattie rare; allora contattammo il dott. E. dell’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia che fissò la prima visita a settembre 2011. Intanto arrivarono i risultati di Alessandro. Tutto nella norma.

Da settembre 2011 ad oggi abbiamo girato tanti ospedali, fatto tanti esami, molti invasivi, da risonanze a rachicentesi, prelievi, viste oculistiche, ortottiche, polmonari, EEG e chi più ne ha più ne metta. In questi 5 anni la speranza ci ha sostenuti, la speranza ci ha sempre dato il motivo per continuare a cercare e a capire. D’altro canto, in 5 anni nessun medico di ospedale guardandoci negli occhi ci ha mai detto “cari genitori avete compreso che Emma è una bimba disabile”.

Sembra ovvio solo ora, a distanza di anni, arrivare a questa conclusione. Ma per noi non è stato così. Ricordo ancora il colloquio con un medico privato di Reggio al quale portammo Emma in visita all’età di 1 anno circa. Gli feci solo una domanda: “Emma è una bimba disabile? Non guarirà mai?”. Avevo bisogno di sentirmelo dire: fino a quel momento mi era sembrato di vivere in una bolla, che prima o poi sarebbe scoppiata e tutto si sarebbe sistemato.
Nessun medico ci ha preso per mano e ci ha accompagnato in questo percorso, aiutandoci e affiancandoci con suggerimenti.

Ogni viaggio intrapreso verso i centri di ricerca e di cura è stato frutto esclusivamente della nostra dedizione per Emma, dei parenti che ci hanno sempre sostenuto moralmente e anche economicamente, perché seguire un figlio disabile significa che il lavoro, almeno per uno dei due genitori, diventa un hobby.

Nel mio caso, ho rinunciato a lavorare a tempo pieno: tuttora mi ci dedico nelle ore del giorno in cui non devo seguire Emma per le terapie e gli appuntamenti medici, avendo la fortuna di far parte dell’azienda di famiglia.

Il pediatra di riferimento, Nicola, è un punto fermo per noi. Benché non sia uno specialista e non abbia potuto fare granché per capire la malattia di Emma, è sempre stato presente: è diventato un fratello, un buon ascoltatore, un buon psicologo e mediatore familiare. 

In questi 5 anni abbiamo avuto bisogno di un aiuto psicologico esterno, perché abbiamo attraversato momenti bui come famiglia ma soprattutto come coppia, come genitori. Non sapevamo a chi rivolgerci per avere aiuto e non mollare tutto, e Nicola c’è stato.

Abbiamo piano piano imparato termini medici, abbiamo imparato ad essere infermieri per esperienza, abbiamo imparato a organizzare la nostra vita e ritmi in base alle necessità di Emma e ai suoi limiti.

Anche Alessandro ha dovuto imparare ad amare una sorella diversa, proprio lui che quando ero incinta non vedeva l’ora che la sorella crescesse per giocare con lei a rincorrersi o con le macchinine, per andare al mare a fare i castelli di sabbia.

Ricordo che una sera, mentre mettevo a letto Alessandro, mi disse che sapeva come fare per curare Emma. I medici avrebbero semplicemente dovuto aprirle la testa, guardare dentro cosa mancava e metterglielo, poi chiudere bene, e le gambe le mani la bocca di Emma avrebbero funzionato.

O ancora, quando una notte si svegliò di soprassalto e mi disse che noi, mamma e papà, non avremmo mai dovuto morire perché lui non sarebbe stato capace di prendersi cura di Emma da solo.

In conclusione, le cose che sono mancate nel mio percorso di mamma di una bimba speciale sono:

  • chiarezza, perché nessun medico all’inizio del percorso ci ha mai detto o parlato di disabilità
  • mancanza di un sostegno psicologico
  • mancanza di un centro di riferimento per malattie rare, dove andare, chi contattare, quali passi fare, ecc…
  • mancanza di chiarezza burocratica per gli adempimenti della legge 104
  • ad oggi Emma non è presa in carico da nessun centro. Nessun medico si è impegnato ad approfondire la diagnosi
  • non ci sono attività e spazi adeguati a integrare i bimbi speciali, come ad esempio parchi giochi
  • confronto con altre mamme per capire che ausili hanno usato nel quotidiano, come hanno risolto alcune difficoltà di tutti i giorni, che centri di riferimento consigliano

Le cose positive che mi hanno permesso di andare avanti:

  • Emma stessa
  • l’amore che la comunità ha verso Emma, e la sua riuscita integrazione
  • il mio pediatra Nicola
  • l’umanità che trasversalmente ho potuto toccare con mano in poche e rare persone del Comune di Modena, della NPI, di alcuni ospedali
  • l’aver imparato a guardare Emma con gli occhi del cuore, che tutto vedono tranne le imperfezioni