Narrazione di Alessandra, paziente formatore, nell’ambito del Corso di perfezionamento in Metodologie didattiche per l’insegnamento della medicina con i pazienti formatori

Mi chiamo Alessandra, ho 53 anni, sono sposata con Sandro da 25 ed ho due figli Giulia di 21 anni e Gabriele di 16 .
Nella mia vita, mi sono trovata spesso ad indossare i panni di caregiver ma inaspettatamente un anno fa si sono mischiate le carte e sono diventata una paziente.

Mio padre
Il mio papà era un omone di 180cm per 130 kg che improvvisamente non riusciva più a camminare per più di 100 metri senza avere il fiatone. Ero convinta che avesse un tumore ai polmoni, visto che grande fumatore era stato nella sua vita, ma dopo aver fatto alcune analisi, la diagnosi fu di leucemia mieloide acuta. Parliamo di 23 anni fa e noi non sapevamo neanche che cosa fosse la leucemia.
Ricoverato d’urgenza al Policlinico Gemelli di Roma fummo presi da parte dall’ ematologo che ci presentò dei fogli da firmare per un protocollo sperimentale appena approvato a Parigi.
A quei tempi il malato non era messo a conoscenza dai medici riguardo al reale stato della malattia ed io firmai l’accettazione per lui.
Cosa vuoi insegnare con questo? Credo fermamente nei progressi della scienza, ogni giorno viene scoperto qualcosa di nuovo, e nella speranza, che non bisogna mai abbandonare.
Mio padre era uno che non mollava mai, tosto, sincero e schietto ed io cercai di non essere da meno. Dopo aver firmato gli dissi quello che credevo e speravo, cioè che ci potesse essere altro oltre la nefasta sentenza dei venti giorni di vita.
Passarono dodici mesi durante i quali riuscì, unico del suo gruppo, ad arrivare alla fine del protocollo e qui l’ematologo ci disse che non aveva più niente da poter dare come cura perché la scienza era andata oltre quella conoscenza .
Vi devo dire che durante questi mesi io aspettavo la mia bambina e sono sicura che questo ha dato al mio papà una forza in più, lui ha aspettato la mia Giulia. Credo fortemente nella speranza che i bambini possono dare e credo inoltre che un malato non possa attendere inerme la propria morte. Questo mi ha portato a cercare altro e ad arrivare al Prof. Di Bella che ha regalato a mio padre altri 6 mesi di vita dignitosa e piena di amore.
Cosa significa per il paziente /famiglia una cura alternativa? Avere la possibilità di rimanere fino alla fine nel proprio letto, senza sentirsi abbandonati al proprio destino. Poter scegliere una morte dignitosa senza essere attaccato a macchinari vari. Questa almeno è stata la nostra esperienza di venti anni fa.
Avevamo in quel tempo una casa molto grande, dove si sono trasferiti i miei genitori e mio fratello con sua moglie, per poter accontentare mio padre che voleva morire a casa circondato dall’amore della sua famiglia.
Diciotto mesi contro venti giorni, saremmo sempre grati per questo tempo in più concesso alla nostra famiglia.
Dopo questa esperienza così forte mi sono fatta aiutare da uno specialista, per il bene di Giulia e di tutti noi, e sono andata avanti.
Sarebbe veramente fantastico poter trovare dei medici sensibili all’ascolto, ma credo che non abbiano né la formazione né il tempo per poter accogliere le varie sfumature di ogni personalità. Io all’epoca guidavo per 100 km ogni giorno per stare con mio padre, sia quando ero incinta, sia quando allattavo Giulia, nata con parto cesareo. Dopo il lutto, nonostante l’ematologo fosse persona sensibile ho dovuto per forza fare dei colloqui con uno psicologo. Mi dicevano che Giulia sarebbe stata molto penalizzata dalla mia sofferenza, invece non è stato così. Ho una ragazza serena e indipendente.

Alitalia
Ho volato per 22 anni della mia vita. Sono stata a lungo responsabile di volo ed in questa veste ho spesso assistito persone in difficoltà durante voli sia di lungo che di corto raggio.
In Alitalia ho partecipato per dieci anni ad un progetto chiamato Assist, nel quale i naviganti volontari vengono addestrati periodicamente per dare assistenza a superstiti o parenti di vittime di disastri aerei.

Mia cugina Luisa
Quando ho ricevuto la chiamata di Luisa dove mi diceva di aver fatto una ecografia all’addome per una gastrite, ma che era stata velocemente indirizzata verso il Gemelli, ho avuto una stretta al cuore. Dopo qualche giorno di analisi, tac e altro mi chiese di raggiungerla in ospedale dove la diagnosi fu carcinoma allo stomaco altamente metastatizzato.
Luisa, 42 anni, due bambine piccole, donna forte ma in questo caso disperata e chiusa nel suo silenzio, ha affrontato tutte le cure con grande coraggio. Si confidò con pochi e noi cugine facevamo i turni per assisterla.
Io ero quella che stava con lei durante i ricoveri. Parlavo con i dottori, le portavo da mangiare perché era terrorizzata dalle infezioni che si possono prendere in ospedale. Con lei ho capito molto sulla morte e su come scegliere di affrontarla. Ho capito che il dolore per i congiunti ti può schiacciare e farti dimenticare chi sei e che cosa è meglio per te. Luisa ha resistito alla malattia 13 mesi. Ci ha lasciato due splendide bambine, adesso ragazze, che non abbiamo mai abbandonato.
Ci sarebbe molto da dire, difficile riassumere in poche righe. La sensibilità e l’ empatia verso il prossimo posso essere doti innate o acquisite con l’esperienza, ma non è scontato che tutti le abbiano. Tramite l’addestramento effettuato per Assist ho capito che soltanto la simulazione di un evento può far capire realmente la sua drammaticità. Tutte le figure che ruotano intorno ad un traumatizzato dovrebbero riflettere e sensibilizzarsi nell’ascolto e nell’accoglienza.

Delia
Delia è mia suocera, anzi era. Una donna tosta e forte che è vissuta a lungo, ma che ha avuto bisogno di assistenza per un po’ a causa del deterioramento della sua salute dopo l’applicazione di un pacemaker.
Quando non si è più alzata dal letto ho avuto modo di entrare in contatto con la burocrazia ed il sistema sanitario regionale di Roma, un vero disastro. Si è ancora condizionati dall’aver fortuna nell’incontrare persone, in questo caso medici, con coscienza. Lei era anche una malata oncologica, tumore alla mammella e soltanto la disponibilità economica le ha permesso di morire dignitosamente nel suo letto.
Si potrebbe insegnare a non essere sempre prevenuti, il pregiudizio e il giudizio rovinano le sorti delle persone.
Le procedure dovrebbero essere semplificate, il sistema dovrebbe agevolare le persone alla fine della loro vita e non creare ostacoli . La morte non aspetta nessuno.

Io, Alessandra
La mia storia medica inizia ufficialmente un anno fa, anche se in realtà i sintomi della malattia li avevo già da tre anni e tutti mi dicevano che non accettavo l’avanzare dell’età e la comparsa della menopausa.
Se mi sono salvata è soltanto perché ricordavo quella tremenda stanchezza vista tanti anni prima in mio padre.
Mi volevano far credere che fosse normale per una donna di cinquanta anni smettere di essere operativa già dopo pranzo. Per questo motivo una domenica mattina sono andata a fare un’ecografia addominale privatamente, prima del pranzo con amici che avevo organizzato in giardino.
Il tecnico durante l’ecografia girò il monitor verso di me e disse:” La vedi questa palla? È la tua massa che parte dal pancreas ed è 12cm per 11cm. Ha mangiato la milza ed altro. Quando esci da qui devi andare direttamente in ospedale”.
A questo punto ho avuto il mio primo blackout. Sono tornata a casa, ho chiuso il referto in un cassetto, ho accolto i miei ospiti, ed ho organizzato la partenza di mio marito e dei miei figli per Londra, come da programma. Avevo bisogno di silenzio e di mettere in ordine i pensieri.
Io sono per la verità. Tutti dovrebbero essere liberi di poter scegliere quello che è meglio per se stessi. Credo che chi non vuole sapere fa soltanto finta, in cuor suo sa già la risposta. Bisogna comunque avere il giusto modo per dire cose così importanti.
Il lunedì sono andata dal mio vecchio medico dell’Alitalia che, pur non essendo più in servizio, mi ha ricevuto ugualmente. Lui mi ha indicato la strada tra un professore ed un altro e il lunedì successivo ero al Gemelli per un day-hospital programmato. Rientrato mio marito dall’estero l’ho messo al corrente di tutto. Il mio amore non era pronto ad una notizia del genere, all’inizio non ha nemmeno sentito la parola tumore, voleva che fosse una ciste di grasso.
La famiglia e la diagnosi: la mente umana non è mai pronta al pensiero della perdita, si dovrebbe aspettare che la persona riprenda a respirare e spiegare di nuovo.

Da quel lunedì non sono più uscita dall’ospedale per svariato tempo. Mi fu diagnosticato un tumore neuroendocrino che spingeva la vena splenica creando un trombo di 4 cm, perciò fu prenotato un intervento d’urgenza.
Non volevamo capire, infatti ce ne volevamo andare per tornare dopo 15 giorni.
Nostra figlia studiava a Londra ed era in procinto di trasferirsi come volontaria per 5 settimane in Sri Lanka e nostro figlio era impegnato negli ultimi giorni di scuola al liceo.
Il mio unico pensiero fisso erano i nostri figli. Come potevamo dire loro una cosa così drammatica, sconvolgente e pericolosa?!
Non avevamo il tempo necessario per parlarne bene, così abbiamo optato per dire che si trattava di una normalissima ciste. Soltanto alcuni giorni dopo abbiamo detto loro la verità anche se credo che avessero capito subito la gravità della situazione, dai nostri occhi e dal nostro dolore.
I giovani possono essere intuitivi e straordinari.
Potrei parlare dell’embolizzazione effettuata da cosciente lo stesso giorno dell’operazione, delle 8 ore di intervento, della terapia intensiva, dell’emergenza dopo due giorni a causa della perforazione dello stomaco, del non respiro che ho avuto per giorni e di quel distacco da me stessa che ho avuto per lungo tempo. Lo stesso distacco con cui sono riuscita ad organizzare tutto per il dopo, se non ce l’avessi fatta.
I momenti più traumatici di tutto questo mio vissuto sono stati quei 40 min sotto la pressa dopo l’embolizzazione. Lasciata da sola in una anticamera perché ero stata inserita d’urgenza. Il medico molto gentile e professionale, ma il dopo è stato all’ insegna della solitudine.
Eccoci adesso dopo un anno, senza corpo e coda del pancreas, senza milza, vena splenica, cistifellea, 12 cm di colon, svariati linfonodi, ma profondamente consapevole e viva.
Faccio una puntura di derivato della somatostatina ogni 28 giorni e sto bene. Sono più delicata ma sono sempre io, con priorità diverse ed esigenze diverse, qualcuno si è allontanato ma qualcun altro invece si è avvicinato e la vita va avanti con dure prove ma anche meravigliosi cambiamenti.
Mi ritengo comunque una persona fortunata.
Durante queste esperienze di vita ho incontrato molti professionisti, alcuni estremamente competenti, altri meno, alcuni appassionati ed attenti, altri scontrosi e duri ma sono sempre stata convinta che la risorsa più preziosa per il paziente sia il dialogo per poter superare lo smarrimento dei momenti più duri. La famosa rete di lavoro fra gli specialisti, la tanto decantata comunicazione tra i vari medici ed il paziente, dove il malato dovrebbe partecipare e condividere il percorso terapeutico, secondo me ancora non c’è o almeno io non l’ho trovata. far si che questa prima impressione sia positiva.
Si può notare inoltre che tra questi specialisti non è quasi mai presente presente la figura dello psico-oncologo, figura fondamentale nel soccorso del malato in momenti di profondo sconforto.
Ho conosciuto Net Italy lo scorso 10 novembre durante la giornata dedicata ai net presso il Sant’Andrea di Roma. Ho trovato un gruppo di donne fortemente motivate, che mi hanno reso partecipe del vostro progetto. Un progetto che trovo entusiasmante, basato su valori sempre importanti nella società: l’umanità della persona, il confronto nelle varie competenze, la cura per l’altro, il dialogo, lo scambio di informazione e il mettere a disposizione del prossimo la propria esperienza, qualunque essa sia.
Grazie.