Sono Luisa, ho 53 anni, due figli.
Mentre scrivo questa narrazione è passato esattamente un anno dalla morte di Stefano, mio marito.
Sono, o meglio ero, figlia unica nata da genitori che all’epoca furono definiti “attempati” e probabilmente per la loro età hanno espresso il desiderio di abitarmi vicino anche dopo il mio matrimonio.
La mia vita, e quella di tutta la mia famiglia, cambia improvvisamente nella primavera del 2008 quando a tutti gli effetti inizia la mia esperienza di caregiver.
Siamo a marzo, sono in ufficio e ricevo una telefonata concitata di mio padre, riesco solo a capire che mia madre non sta bene, pare sia svenuta. Lavoro distante da casa e non riesco a correre tempestivamente quindi chiamo mio marito perché vada a vedere cosa sta succedendo. Viene chiamata l’ambulanza.
A seguito di questo episodio sincopale, mia madre allora ottantenne, viene ricoverata e dopo aver riscontrato una forte anemia viene sottoposta a diversi accertamenti; inizia un periodo di osservazione sulla sua salute.
Periodicamente si eseguono controlli presso il day hospital oncologico perché si sospetta una invasione midollare di plasmacellule e a gennaio 2009 viene sottoposta a biopsia e mieloaspirato.
Viene confermata una discrasia plasmacellulare – mielodisplastica che fortunatamente non necessita di terapia ma solo di monitoraggio. Capirò solo dopo che quel “fortunatamente” significava che la terapia era fattibile ma, considerate le condizioni generali non ottimali, era controindicata.
Inizialmente il monitoraggio avviene trimestralmente con analisi e visita, lei sta bene; è sempre stata una persona molto dinamica e il suo approccio alla vita decisamente positivo, conduce la vita di sempre per cui non sento di avere motivo per essere preoccupata.
In day hospital si respira un’aria familiare, l’ematologa che la segue ha un modo di fare molto rassicurante e con la mamma è sempre molto gentile, la tranquillità che consegue a questo atteggiamento si riflette anche su di noi, ci sentiamo in buone mani.
A settembre 2011 i valori relativi all’ emoglobina iniziano ad abbassarsi e viene sottoposta alla prima terapia trasfusionale, solo in quel momento inizio a non essere più così tranquilla: “questo midollo batte un po’ la fiacca” mi disse l’ematologa, necessita di un modesto supporto trasfusionale, due sacche ogni due mesi ed Il monitoraggio dell’emocromo mensile. La ripresa di mia madre dopo ogni trasfusione è immediata, è davvero una roccia.
Il 29 maggio 2012 alle 9 del mattino una fortissima scossa di terremoto scuote il nostro territorio mettendoci a dura prova, quel giorno la mamma deve fare la trasfusione ma gli ospedali sono completamente fermi. La trasfusione salta, chiamo il day hospital ma non sanno darmi informazioni se non di portarla al pronto soccorso a Modena per eventuali necessità. Ho provato un pò la sensazione di essere abbandonata ma la situazione generale è di piena emergenza, un terremoto non capita tutti i giorni. Provo ad aspettare.
Passano un paio di giorni ed il 31 maggio 2012 la mamma viene ricoverata perché sta male, serve una trasfusione urgente. Durante la prima sacca inizia a respirare male, la trasfusione viene interrotta per quella che definiscono una sindrome coronarica acuta ma le cose si rimettono al meglio nel giro di qualche giorno e viene dimessa.
Ad agosto muore mio padre e lei inizia piano piano a peggiorare, è stanca e inappetente così a dicembre viene inserita nel progetto “trasfusioni a domicilio” di AMO, in modo tale da risparmiarle anche lo stress del viaggio.
A gennaio 2013 muore mio suocero, i miei genitori ed i miei suoceri erano legati da un bellissimo rapporto di amicizia e questa perdita la mette ulteriormente alla prova, è quasi come se non avesse più voglia di combattere e, a partire da giugno 2013, si rendono necessari diversi ricoveri.
Ricordo perfettamente il primo ricovero, la porto al pronto soccorso di Carpi, ci presentiamo al triage per le prime informazioni e veniamo invitate ad attendere; quando viene chiamata per la visita l’accompagno credendo di poter entrare con lei come ho fatto tante altre volte ma vengo invitata a rimanere fuori.
Ho qualche perplessità, è sorda e spesso non capisce i termini medici, temo che possa spiegarsi male sulla sua storia clinica.
Decidono di ricoverarla, ci inviano al reparto di medicina e mi consegnano la lettera che hanno preparato.
Ci sistemiamo nella camera e con calma leggo la lettera; premetto che quando siamo a casa la prima cosa che faccio al mattino è quella di provarle la pressione perché vario il dosaggio dei diuretici a seconda dei valori pressori, previa telefonata al mio medico di base.
Ormai so a memoria tutto, farmaci e dosaggi per cui non capisco da dove abbiano preso i dati che trovo scritti, non è stata riportata la terapia che sta seguendo a casa.
Chiamo la caposala e glielo faccio notare, ho con me tra l’altro tutto il fascicolo della mamma e posso provare quello che dico, con grande imbarazzo mi chiede scusa e prende nota.
Se solo mi avessero fatto entrare al momento della visita in pronto soccorso tutto questo non sarebbe successo.
In questo reparto percepisco poca umanità, e noto poca attenzione sia al paziente che al familiare, quando chiedo di parlare con qualche medico per sapere come va ho la netta impressione di essere di troppo. Ho già deciso che sarà l’ultima volta che la porterò in questa struttura.
Ad agosto si rende necessaria un’altra corsa in ospedale, chiamo l’ambulanza perché la sera, dopo averla sistemata a letto, dice di non riuscire a respirare, arriviamo a Mirandola, i medici parlano chiaro, la situazione è molto grave ormai è questione di poco tempo. Le trasfusioni non servono più ed è ad elevatissimo rischio di emorragia interna.
E’ stanca, si sta spegnendo piano piano ma è lucida, tanto da riuscire a farci ancora ridere con le sue battute, che sono quelle che ancora oggi mi fanno sorridere quando penso a lei.
Sono molto combattuta, mio padre era morto esattamente un anno prima in ospedale e non voglio ripetere l’esperienza, se mia madre deve andarsene lo farà nel suo letto, nella sua casa e con la famiglia vicino.
Parlo con il medico responsabile del reparto di cardiologia, dove è ricoverata, e dico apertamente che se è la fine la porto a casa, con sorpresa lo scopro d’accordo con me e con la totale collaborazione e gentilezza viene predisposto tutto per le dimissioni. Sono stupita di una tale comprensione perché mi aspettavo un rifiuto, sono molto sollevata.
Una gentile dottoressa del reparto mi chiama e, con parole che non dimenticherò mai, mi fa capire di aver fatto la scelta giusta, mi chiede se voglio l’ambulanza per il viaggio di ritorno ma rifiuto perché voglio essere io a portarla a casa, come tutte le altre volte, non so se si rende conto della gravità della situazione e non voglio allarmarla.
E’ mercoledì.
Stanca ma tenace, rimane tutto il giorno nella sua comoda poltrona, per mangiare va a tavola e solo la sera si stende a letto. Il sabato non si alza, dorme troppo secondo me, così chiamo il mio medico di base che dopo aver rilevato i parametri mi conferma che potrebbe andarsene da un momento all’altro, siamo al capolinea. Rimango sveglia tutta la notte seduta di fianco a lei e la guardo mentre respira affannosamente. Se ne va alle 9,30 de mattino. La mamma è stata per me una presenza forte e costante, mi manca e per me
segue un periodo di “depressione reattiva” dalla quale uscirò con il supporto psicologico e della mia famiglia.

TRE ANNI PRIMA
Nel 2010 mio padre ottantaquattrenne inizia a dare i primi segnali di perdita di memoria, non ricorda dove mette le cose e i nomi delle persone ma nulla di particolarmente grave (almeno così pare). Al controllo geriatrico di gennaio 2011 leggo “disturbo mnesco ingravescente”, e durante una visita geriatrica assisto al primo “mini mental”, un questionario che apparentemente sembra quello per un bambino delle elementari: “le dico tre parole: pane – casa – gatto. Se le ricordi che alla fine della visita gliele chiedo”.
Segue una serie di altre domande, gli viene chiesto di fare alcuni disegni su indicazioni ben precise e la visita finisce con la richiesta di ripetere le famose tre parole. Puntualmente non le ricorda e durante tutto il viaggio di ritorno brontola perché non si capacita del fatto di essersi dimenticato tre parole così semplici. Mi sembra un bambino indifeso e cerco di rassicurarlo. La persona che per una vita era stata il mio punto di riferimento ora ha bisogno di me, si stanno invertendo i ruoli, difficile da accettare ma devo tenere duro, mia madre non deve preoccuparsi.
La vita scorre abbastanza serenamente, i farmaci tengono sotto controllo la situazione e soprattutto il tono dell’umore e, nonostante alcuni buchi nella memoria, è autosufficiente. A ottobre 2011 cambiano un po’ le cose, iniziano idee deliranti, allucinazioni visive e saltuari episodi di aggressività fisica, disorientamento temporale ed un deficit severo della memoria. La televisione accesa per lui è una tortura, alcuni personaggi vengono visti come nemici, vogliono fargli del male o addirittura vogliono soldi. Le giornate sono davvero molto difficili, mia madre ha già i suoi problemi così decidiamo di prendere una badante, almeno per il giorno mentre io sono al lavoro.
Una mattina mi trovo presso gli uffici comunali e leggo di un’associazione locale che si occupa di malati di demenza e Alzheimer, segno il numero e chiedo un appuntamento.
Mi reco presso la sede di questa associazione, fondata da familiari, mi accoglie un signore molto gentile così gli spiego la mia storia e lui mi racconta di sua madre. E’ vero che solo chi vive certe situazioni può capire, il senso di solitudine si attenua, finalmente qualcuno che capisce come mi sento.
Vengo messa in contatto con la psicologa dell’associazione che mi propone il progetto denominato “ore di sollievo”: una persona qualificata ed esperta viene a casa ad assistere il tuo familiare e tu puoi riscoprire i gesti quotidiani, la spesa, la parrucchiera … puoi fare una doccia senza avere l’ansia di andare a vedere cosa sta facendo. Mi sembra di rinascere ma non riusciamo ad attivare il progetto perché arriva il 29 maggio 2012, viviamo in uno dei comuni più colpiti dal sisma.
Passiamo la giornata in giardino, all’ombra delle piante mentre guadiamo la casa oscillare, rientriamo solo nel tardo pomeriggio, per fortuna non abbiamo avuto danni, mio padre è immobile, lo sguardo nel vuoto, non riesco a capire se si rende conto di quello che sta succedendo perché non parla.
Mia madre inizia a non stare bene, la trasfusione prevista in quei giorni è saltata, il 31 maggio viene ricoverata. Fortunatamente a casa ho mio marito ed i miei figli ad assistere mio padre mentre sono in ospedale con la mamma.

Il pensiero costante è quello di dover scappare fuori per le scosse così ci trasferiamo tutti a piano terra, dove vivono i miei genitori, con le porte spalancate pronti a correre, dormo su un lettino di quelli che si usano per prendere il sole sistemato davanti alla porta della camera di mio padre a fare da barriera nel caso decidesse di alzarsi.
Nei giorni immediatamente dopo il terremoto Inizia a diventare molto aggressivo e non so più cosa fare, provo a chiamare i medici di riferimento ma la situazione di quei giorni rende ancora più difficili i contatti.
Sono veramente disperata.
Ho trovato ancora una volta un grande aiuto dal mio medico di base che viene a casa e, dopo essere rimasta per un lungo periodo di tempo con noi a guardare gli atteggiamenti del papà, chiede un ricovero urgente presso un ospedale psichiatrico.
Lo portiamo presso la clinica io e mio figlio, lo sistemano in camera e seguo un infermiere per gli adempimenti burocratici, quando torno è raggomitolato nel letto, lo vedo completamente indifeso. Il senso di impotenza che provo è indescrivibile.
Il ricovero di mio padre dura due mesi, l’ospedale dove è ricoverato mi sembra una prigione, pare di stare in un film. Arrivi al 4° piano in ascensore, per entrare devi suonare il campanello, aspetti che ti vengano ad aprire perché la porta è chiusa a chiave. Senti i passi dell’infermiere che arriva ed il tintinnio delle chiavi. Se chiudo gli occhi sono in un film dell’orrore. Gli orari sono molto rigidi e possono essere date deroghe solo dai medici.
Una mattina vengo chiamata dalla dottoressa che segue il papà perché non riescono a farlo mangiare e vogliono vedere se in mia presenza le cose cambiano.
E’ una cosa che non capirò mai ma con me mangia tutto, sto con lui un po’ finchè non lo mettono a letto. Tre volte al giorno, vado da lui, 30 km andata e altrettanti al ritorno, piango durante tutto il viaggio e mi fermo un po’ prima di arrivare a casa per asciugarmi gli occhi e riprendermi un po’; spero che la mamma non si accorga di nulla. Mi sforzo di mangiare per non farle capire come sto. Spiego ai medici la situazione che ho a casa e concordiamo le dimissioni protette, verrà inserito in una
struttura per anziani, non sono molto contenta ma non ho alternative. Morirà 20 giorni dopo.

STEFANO
Nella famiglia di mio marito al compimento del 18° anno di età diventi donatore di sangue. A gennaio 2011 gli esami di controllo annuali dell’AVIS evidenziano un valore del fegato sballato, “siamo a gennaio” pensiamo, probabilmente i pranzi di Natale hanno influito, un medico dell’AVIS lo chiama per fare un’ecografia: sul fegato una massa di 10 centimetri, che scopriremo successivamente essere una metastasi.
Non può essere vero, non sta capitando a noi …… il day hospital oncologico prende subito in carico la situazione per programmare ulteriori accertamenti.
Una domenica mattina di marzo dice di non sentirsi molto bene, proviamo la pressione: la massima oltre i 200, di corsa al pronto soccorso.
Non mi lasciano entrare per vederlo e di quella mattina ho due ricordi indelebili: una dottoressa che impietosamente mi dice “poverino è così giovane“, ma io di fatto non sono ancora stata informata in merito alla situazione quindi non capisco questa affermazione, il secondo ricordo è di un medico che uscendo dalla stanza mi guarda scuotendo la testa come per volermi dire che non c’è niente da fare, senza dire nemmeno una parola.

Esattamente l’opposto di quello di cui ho bisogno in quel momento, una spiegazione e magari qualche parola di conforto. Se qualcuno mi spiegasse cosa sta succedendo non mi sentirei come su una zattera in mezzo all’oceano.
Arriva la diagnosi: tumore neuroendocrino.
Faccio quello che fanno tutti, mi butto su internet a cercare notizie, niente di più sbagliato anche se è naturale cercare immediatamente notizie che vadano oltre quelle fornite dai medici. Imparerò con il tempo che è un tumore raro e che la diagnosi corretta è fondamentale per fare terapie adeguate. E’ possibile la cronicizzazione ma solo con l’approccio terapeutico giusto. La presenza del tumore è certa ma non si conosce la primitività per cui inizia una serie infinita di esami, endoscopie, colonscopie, tac, pet ma ancora niente.
Veniamo inviati al centro trapianti del policlinico di Modena dove gli viene data la capsula endoscopica, gli viene fatta ingoiare una pillola contenente una telecamera che, se siamo fortunati, troverà il primitivo; alla fine del suo percorso viene analizzato il contenuto e fortunatamente ha fatto il suo dovere: il primitivo è in un ansa ileale.
All’inizio di maggio 2011 viene sottoposto ad un intervento chirurgico lunghissimo, viene accompagnato in sala operatoria praticamente all’alba e torna in reparto solo al pomeriggio, le porte dell’ascensore si aprono, mi sembra di svenire: tubi ovunque ma cerco di sorridere perché è sveglio e mi sta guardando. Non voglio che mi veda spaventata.
Devo farmi coraggio.
Vengo chiamata dal primario che ha eseguito l’intervento, mi spiega che hanno tolto 50 cm di intestino il primitivo non c’è più così come un certo numero di linfonodi; mi dice che avrebbe voluto fare di più anche sul fegato ma le metastasi sono talmente tante che non sapeva dove mettere le mani. Questa notizia mi raggela perché mi fa pensare ad una situazione catastrofica, tanto che non ricordo più nulla di quello che mi ha detto dopo; la mia testa sta già correndo avanti per pensare a cosa dire ai miei figli Ho imparato che in questi casi è sempre bene essere in due ad ascoltare, probabilmente adesso saprei cosa mi aveva detto ancora.
La degenza è lunga ma una volta tornati a casa, un medico amico di famiglia ormai in pensione, ci consiglia di andare in un grande centro di Milano “quando ci sono queste patologie rare è bene andare dove fanno ricerca”.
Prendo appuntamento a pagamento per una visita in questa nota struttura e la visita si rivela una grande iniezione di speranza. Ci accoglie la Dottoressa G. che ci parla della patologia e di tutte le “cartucce” a disposizione per sconfiggere questo NET.
E’ un tumore lento a lunga sopravvivenza, ce la faremo. E’ una sensazione strana, pensavo fosse finita e invece esco quasi convinta di avere a che fare con un raffreddore, faremo la vita di sempre, la dottoressa ci racconta di avere pazienti che convivono benissimo con la malattia a distanza di 20 anni dalla diagnosi. Tutto procede secondo i protocolli, puntura di sandostatina ogni 28 giorni e controlli trimestrali. A settembre viene ricoverato a Milano e sottoposto ad embolizzazione epatica, la dottoressa ci spiega che
verranno inserite delle microsfere nei vasi che nutrono le metastasi. Con il solito tono amichevole ci dice “gli togliamo la pappa” servirà a necrotizzare le metastasi, almeno le due più grandi.

Viene a farci visita in camera il radiologo interventista che ha eseguito l’embolizzazione, sorridente e molto soddisfatto della riuscita dell’intervento. Dice di aver trattato solo le due metastasi più importanti ma di non preoccuparci perché l’intervento può essere ripetuto anche sulle altre che al momento sono molto piccole.
A fine ottobre 2011 inizia una serie di ricoveri (che si concluderanno nel 2013) presso il reparto di medicina nucleare dell’Arcispedale S.Maria Nuova di Reggio Emilia per la terapia radiometabolica, ci danno buone prospettive perché i risultati di questa terapia, se pur sperimentale, sono incoraggianti.
Lo staff di questo reparto è molto affiatato, sembra di stare in famiglia ed il primario è veramente gentile e disponibile, senti davvero di averli al tuo fianco nella battaglia contro la malattia. I pazienti vengono accompagnati in reparto dove rimangono 3 giorni ma non è possibile andare a fare visita, le camere sono blindate. Alla dimissione ci danno una serie di informazioni sui comportamenti da tenere a casa, è radioattivo e dobbiamo usare alcune cautele.
Passiamo tre anni di malattia stabile, ben controllata dalle terapie, che ci consente di fare una vita del tutto normale. Meno male …. perché la nostra attenzione è catalizzata dalla mielodisplasia di mia madre e dalla demenza di mio padre. Della malattia non parliamo praticamente mai, se non per gli aspetti puramente organizzativi e burocratici;
ognuno si tiene le sue paure quasi a volerci proteggere l’uno con l’altro. Di morte poi non se n’è mai parlato.
A fine 2015 inizia il peggioramento, le metastasi iniziano ad intaccare polmoni e ossa ma la qualità di vita è ancora buona, va regolarmente al lavoro anche se è spesso stanco.
In aprile 2016, per alcuni giorni ha male ad una spalla ed una sera dice di avere fortissimi dolori che non passano nemmeno con il più potente degli antidolorifici che abbiamo a disposizione; questa volta decido di portarlo al pronto soccorso del Policlinico di Modena dove so che c’è un reparto di oncologia, infatti viene ricoverato al COM.
Simona, che ho conosciuto perché anche lei paziente NET nonchè collega di mio figlio , è seguita dal Responsabile del Day Hospital Oncologico di cui mi parla sempre molto bene, così dopo avermi dato il suo numero di cellulare mi esorta a mandargli un messaggio.
Sono titubante perché non ci conosciamo e aspetto perché non voglio disturbare o sembrare inopportuna ma il mattino seguente mando il messaggio wazzup . Sono le 8,28 e alle 8,46 mi risponde dicendomi che va meglio ed è già passato a vederlo.
Mi sembra un sogno. Conservo ancora la conversazione.
Il Dr. L. ci propone la presa in carico al day hospital oncologico per i controlli ed io sono molto contenta perché passiamo ad un centro specializzato che tratta più frequentemente questo tipo di patologia. La malattia continua lentamente a progredire, segno che le terapie convenzionali non sortiscono più gli effetti desiderati così a giugno 2016 ci viene proposta una terapia sperimentale, l’arruolamento nel protocollo prevede regole e controlli molto rigidi, leggiamo attentamente il fascicolo che ci viene consegnato, gli effetti collaterali spaventano ma non abbiamo alternativa. Tentiamo.
Considerato che a Stefano è stata concessa l’invalidità al 100% e vista la stanchezza quotidiana, decide di trasformare i permessi previsti dalla legge 104 in part time, la riduzione oraria prevista gli consente di essere a casa al pomeriggio per potersi riposare un po’, suo malgrado inizia ad ammettere di non farcela più, mezza giornata è più che sufficiente.

Sono convinta che chi ci ha lasciato su questa terra continui ad essere con noi, a marzo nostra figlia ci annuncia di aspettare un bambino.
Si apre un mondo di speranza e progettualità, già pensa a portare il nipotino o la nipotina al mare l’anno successivo. Nel frattempo viene ridotto il dosaggio della terapia sperimentale a causa degli effetti collaterali divenuti poco sopportabili e si decide per la sospensione a giugno 2017, è passato un anno durante il quale la malattia è rimasta ferma, è già un buon risultato.
A luglio 2017 viene proposta una chemioterapia ma, dei sei cicli previsti ne farà solo quattro sempre a causa degli effetti collaterali. Il calo di peso è evidente ha dolori intensi in tutto il corpo ed inizia a dare segnali di cedimento dal punto di vista psicologico. Considerata la situazione ci vengono affiancati un nutrizionista ed una psicologa.
I consigli alimentari danno ottimi risultati, riesce a prendere un po’ di peso ed ai controlli con il nutrizionista mostra orgoglioso i progressi, anche gli incontri con la psicologa lo aiutano molto, per prima cosa ha bisogno di capire qual è il suo ruolo nell’ambito della famiglia, le dinamiche sono cambiate e ha bisogno di sentirsi rassicurato. Parliamo molto anche con i nostri figli di come stanno andando le cose, è la prima volta che lo facciamo tutti insieme. Pensavamo che la migliore protezione nei suoi confronti fosse il silenzio ma non è cosi. Non è evitando i problemi che li risolvi.
Oltre all’aspetto relativo al suo ruolo in famiglia sta prendendo una decisione molto difficile, quella di andare in pensione, suona quasi come una resa e per lui è dura ma …avremo un nipotino a cui pensare e questo alleggerisce le cose, abbiamo un obiettivo.
Il 31 luglio è il suo ultimo giorno di lavoro, nonostante tutto è ancora attivo e finalmente potrà impegnarsi come si deve per la tanto amata polisportiva, ha dedicato la vita alla sua passione per il calcio, e questo impegno lo distoglierà dai pensieri.
Spesso mi sono lamentata per tutte quelle giornate passate al campo sportivo negli anni prima della malattia, prima da allenatore, poi da dirigente, per le serate fuori casa per le riunioni ed i consigli direttivi, ma mi sono resa conto che questo suo dedicarsi agli altri era un’ottima terapia.
Piano piano i dolori si fanno più intensi fino a non farlo più dormire di notte e gli antidolorifici prescritti non lo aiutano.
Non lo posso più vedere così e da sola ne parlo al medico di base che, ripeterò a vita, è stata per me un grandissimo aiuto; fissiamo un appuntamento e con tutto il tempo e la calma necessarie la Dottoressa gli spiega come funziona la pompa della morfina, come deve essere gestito il dolore e soprattutto che questo non creerà dipendenza. Era la sua principale paura.
La dottoressa gli dice che se vorrà potrà interrompere ma afferma anche di non aver mai visto nessuno tornare indietro e alla fine si convince.
A novembre 2017 viene avviata l’assistenza del servizio infermieristico domiciliare per la terapia del dolore.
Conosciamo persone davvero stupende, gentili, pazienti e disponibili. All’inizio le visite sono quotidiane perché si deve trovare il giusto dosaggio dei farmaci poi diverranno meno frequenti. Tutti i giorni viene il medico di base e le ragazze del servizio infermieristico per fare il punto della situazione; mi vengono dati i numeri di cellulare per eventuali emergenze e mi sento davvero tranquilla, le cose non vanno bene ma le posso affrontare serenamente perché so di non essere sola.

Il dolore è completamente sotto controllo e questo influisce anche sul tono del suo umore, si torna finalmente a vivere, arriva anche a dirmi “l’avessi fatto prima”.
E’ il 10 dicembre, mia figlia mi informa di essere in ospedale dalla sera prima, si sono rotte le acque ma ci vorrà ancora tempo. Aspettiamo a dirlo a Stefano perché non si preoccupi. Le cose vanno per le lunghe e Carlotta nasce al pomeriggio dell’11 dicembre.
Lo avverto e lo vado a prendere per portarlo a conoscere la sua nipotina all’ospedale, è un’altra persona. Anche le ragazze del servizio infermieristico lo notano, questa bambina ha avuto un tempismo perfetto, è stata un miracolo, Stefano ha una ripresa inaspettata.
Finalmente passiamo il nostro primo Natale da nonni. Dopo Natale inizia il declino, l’ultima visita al DHO è del 4 gennaio, l’oncologo lo fa parlare della sua nipotina e lui cambia subito espressione, gli si illumina il volto.
I polmoni non funzionano più bene, non mangia e viene iniziata l’idratazione a casa, l’ho già fatta con la mamma e non ho paura a gestire una flebo, spero che sia una delle tante ricadute da cui poi si è sempre ripreso ma il medico di base mi lascia poche speranze, decide di mettere anche l’ossigeno.
Nel giro di poco è allettato, Il 12 gennaio inizia a dare segni di sofferenza, vengono sospese tutte le terapie e mi viene proposta la sedazione profonda. Ne ho sentito parlare da poco per la vicenda di Marina Ripa di Meana ma di preciso non so come funziona. Vengo adeguatamente informata dal medico di base assieme alle ragazze del servizio infermieristico domiciliare e più tardi, alle 13,00 tornano accompagnate dal medico palliativista, mi vengono di nuovo date tutte le informazioni per essere messa in condizione di decidere serenamente, mi chiedono se con lui ne ho mai parlato ma questo argomento non è mai stato affrontato direttamente.
Memore delle esperienze passate ed in considerazione del fatto che le cose non miglioreranno ritengo di non farlo soffrire ulteriormente e pensando a cosa vorrei per me se fossi al suo posto decido di procedere. C’è una bella giornata di sole, le infermiere preparano le siringhe con il farmaco e partono con la prima iniezione, il respiro si fa più tranquillo. Mi vengono lasciate altre siringhe pronte perché la situazione potrebbe protrarsi anche per tutta la notte ed essendo giovane potrebbe dare segni di risveglio. Ma ho sempre i cellulari da poter utilizzare in caso di necessità. Vengono socchiuse le finestre perché non ci sia troppa luce e le voci si abbassano. Ci consigliano di parlare solo di cose belle, la bella giornata, la nipotina ….. l’atmosfera deve essere quanto più serena possibile.
Alle 16,10 se ne va.
Ha impiegato tutte le sue forze per aspettare la nostra bambina, i medici mi dicono che non è la prima volta che vedono una cosa così. Si chiama speranza. Ed è la speranza che voglio continuare a dare a chi affronta questa malattia, nel 2014 mi sono associata all’associazione italiana pazienti con tumore neuroendocrino Net Italy, inizialmente per avere un confronto con chi vive la malattia, ora anche per parlare di come affrontarla al meglio attraverso le giuste informazioni; ho partecipato a diversi eventi e congressi, dapprima come semplice spettatrice, ora per raccontare la mia esperienza a medici e pazienti, perché il vissuto degli altri possa essere di aiuto.

La motivazione che mi spinge a collaborare per la formazione dei futuri medici è legata a diversi fattori: educazione del paziente all’informazione corretta, questo può essere insegnato anche e soprattutto dai medici con un dialogo medico/paziente sereno, in rete si trovano le notizie più disparate e si può essere indotti a fare scelte sbagliate, il mio vissuto mi ha dato modo di vedere diversi atteggiamenti dei medici e le esperienze di cui conservo i ricordi più belli sono legati al dialogo, avere informazioni dal proprio medico di riferimento infonde tranquillità : durante le visite i medici dovrebbero prendersi un po’ di tempo per parlare con i propri pazienti, un buon dialogo medico/paziente è fondamentale anche per la buona riuscita delle terapie. Le parole possono fare tanto.
Un paziente più tranquillo ha sicuramente un atteggiamento positivo verso le cure. Il paziente non deve mai perdere la speranza e anche davanti all’evidenza della sconfitta, la parola di conforto del medico aiuta ad accettare la situazione e fare calare il senso di rabbia che si prova. Educare anche al dialogo fra medici, fare rete, se ne parla tanto ed è importante che venga messa in pratica. Soprattutto agli esordi della malattia di Stefano mi è mancato questo, davanti ad una patologia rara è necessario indirizzare il paziente ai centri specializzati oppure instaurare un dialogo con questi per poter portare avanti le cure più all’avanguardia, l’accesso agli studi clinici da poter fare rimanendo vicino a casa
riducendo così lo stress dovuto alla cosiddetta “migrazione sanitaria”, per il paziente è importante sapere di essere in buone mani.
Solo quando siamo passati alle cure del Dr. L. al Policlinico di Modena mi sono sentita veramente tranquilla, tutte le armi possibili sono state utilizzate e diverse specializzazioni hanno collaborato mettendo il paziente al centro, l’epilogo è stato terribile ma mi sento molto serena perché è stato tentato tutto e non ho nessun rimpianto su quello che avrei potuto fare ancora.