Nella primavera del 2015, mi sottoposi ad un check-up della mia condizione sanitaria. Ero rimasto impressionato da un amico coetaneo che mi aveva raccontato dell’esperienza del suo infarto. Nella ricetta per le analisi il mio medico scrisse la parola “obesità” nella ragione della richiesta (dopo avermi pesato e aver calcolato il mio indice di massa corporea mi disse “Sì, Claudio, debbo dirti che con 31 di indice di massa corporea rientri tecnicamente nella categoria degli obesi”).

Le analisi del sangue di verifica trovarono che la mia emoglobina glicata era a 51 mmol/mol. Non accusavo nessun sintomo, ma la diagnosi era chiara: era diabete.

L’esame di controllo confermò. Dubbi non ce n’erano e la diagnosi di diabete era fuori discussione.

Il mio medico cercò di essere delicato Non c’è da preoccuparsi, sei giovane, il livello della malattia non è grave e con un certo impegno è ancora certamente perfettamente compensabile.

Si mescolarono in me la paura e il senso di colpa per non aver fatto prima quello che avrei potuto fare e che mi avrebbe forse evitato di cadere in quello stato.

Mi rinfacciai l’atteggiamento e le autogiustificazioni che da anni mi ero costruito: non mi dovevo piegare alla mania del salutismo, una vera religione laica con i suoi riti e le sue ipocrisie, che non mi era mai piaciuta. Mi sembrava che una personale resistenza sarebbe stata più interessante. “Lo sport alla fine fa male” replicavo a chi esaltava le virtù dell’attività fisica. O anche: “Ho molte altre cose più interessanti da fare” con un certo neanche celato snobismo.

Non vedevo nessuna necessità di cambiare uno stile di vita che era un tutt’uno con quello che ero e che mi interessava e appassionava e che determinava le scelte di impiego del mio tempo. Non vedevo come ci sarebbe potuta entrare nella mia tabella di vita un’ora ogni due giorni da dedicare ad una passeggiata o ad una corsetta.

Si fece strada un’altra paura più profonda, la paura dell’ignoto, di una condizione che non conoscevo, che non sapevo su che strade mi avrebbe portato. Ero abituato a sentirmi il futuro sostanzialmente in mano. Adesso sentivo con chiarezza per la prima volta che c’era un orizzonte a cui in qualche misura potevo essere predestinato. Un orizzonte che non avevo scelto io. Non era certo l’orizzonte corto e drammatico di chi ha diagnosticata una malattia grave, ma con questa situazione ha una qualche pur vaga analogia: il futuro è incanalato in una direzione. E l’idea che ci poteva essere una colpa, una pigrizia o anche solo una trascuratezza alla base di questa condizione in cui mi trovavo me la rendeva insopportabile.

Debbo dire che la persona che mi diede una grande mano fu un caro amico medico che, di fronte alle mie considerazioni sul salutismo, le diete, la forma fisica come obbligazione sociale, mi inchiodò con una frase semplice e secca “Claudio, il diabete non è né una colpa, né una mania: è una malattia”.

Quella parola “malattia” – paradossalmente mi rassicurò. La malattia era una condizione nota; quando si è ammalati di una malattia nota si sa cosa si deve fare: ci si deve affidare ad un medico e seguire i suoi consigli per essere curati e guarire.

Per me fino ad allora malattia era una deviazione temporanea dallo stato di salute e questa sarebbe stata invece una condizione cronica. Temporanea o cronica che fosse, però, se c’era una malattia, certamente ci sarebbe stata una cura. Cura intesa come pratica, qualcuno o qualcosa che si sarebbe preso cura di me e nelle cui mani e nelle cui prescrizioni avrei potuto riporre speranza. Questo in quel momento intravvidi dietro alla parola malattia.

Si trattava dunque di affidarsi, di dare fiducia a qualcun altro. Era un passo non da poco per uno come me che era stato abituato fino ad allora a fare affidamento innanzitutto a se stesso e alle sue forze.

Mi sottoposi al programma del centro diabetologico dell’ASL con qualche dubbio: che bisogno c’era di consigliare come e cosa mangiare, tanto lo sanno tutti cosa fa bene e cosa fa male mangiare. A cosa servirà questo benedetto diario alimentare che ho già fatto e che non ha avuto nessun risultato se non quello di farmi convincere che le richieste dietetiche che mi erano fatte erano assurde e impercorribili per me?

Dopo 3 mesi, alcune visite e 4 incontri di educazione alimentare ero calato di quasi 10 kg e affrontavo l’alimentazione con una mentalità diversa: era cambiato… che adesso facevo affidamento a qualcun altro e non più sempre a quello che sembrava e pareva giusto a me. Qualcun altro che si prendeva cura di me.

Realizzai per la prima volta, provandolo per esperienza diretta, cosa voleva dire avere controllare il bilancio calorico: un controllo metodico del peso corporeo.

Era di evidenza immediata che l’esercizio fisico, qualche chilometro di camminata veloce ogni due giorni contribuiva al calo peso.

Era evidente che alcune piccole abitudini quotidiane qualche effetto ce lo avevano: evitare sempre ascensori e scale mobili, per i piccoli spostamenti utilizzare sempre la bicicletta o, ancora meglio, andare a piedi. Abitudini che richiedevano semplicemente una migliore programmazione del mio tempo e di smettere quello che fino ad allora avevo sempre fatto: la bulimia del tempo, il riempire il mio tempo di cose da fare, fino a fare scoppiare la mia agenda. Non era più possibile: se dovevo prendermi un po’ di tempo per fare un po’ di movimento, non potevo più fare tutto, ma dovevo progettare come organizzare la mia giornata e la mia settimana e dovevo dire anche qualche no, che qualcosa non c’era tempo non si poteva fare o si doveva spostare più avanti.

In poche parole stavo lentamente scoprendo che non erano gli altri che si dovevano prendere cura di me, ma che prima di tutto ero io che mi dovevo prendere cura di me stesso.

Una verità piccola e semplice, ma che non avevo mai capito, nascosta dietro all’abitudine delle pratiche date per scontate. Era scontato, per esempio, che il mio corpo fosse a mia disposizione in modo illimitato e permanente per qualsiasi esigenza. Era scontato che la salute (salvo brevi interruzioni temporanee) fosse un bene garantito in modo illimitato.

Non era evidentemente così.

La cura di sé non era più una mania stravagante, ma più rispetto di se stessi e, specialmente, del proprio tempo.