Mi chiamo Barbara e ho 39 anni, mi sono ammalata di epilessia a 13 anni. Probabilmente
almeno già un anno prima avevo avuto delle avvisaglie, a posteriori piuttosto evidenti. Le
avevo raccontate a mia mamma ma, non conoscendo bene la malattia, lei non gli aveva dato
peso, dicendomi di fare più attenzione. Nella mia famiglia c’era già un caso di epilessia, mio
zio paterno. Lui si è ammalato l’anno prima di me, non se ne parlava mai in famiglia, era un
argomento tabù perchè lui non l’aveva presa bene. Il mio nucleo familiare è composto da mia
mamma, mio papà e un fratello di 8 anni più giovane di me, tutti fortunatamente in salute. Ho due
zii da parte di mamma e una nonna materna. Quando mi ammalai avevo ancora i nonni paterni
ma i rapporti con mia mamma erano difficili. Classe sociale medio alta e tutti con istruzione
almeno liceale se non universitaria. Eppure l’omertà e l’ignoranza hanno contraddistinto la mia
storia.
La mia prima crisi la ricordo come se fosse ora, avvenne la mattina del primo dell’anno del
1994, in montagna. Mi ero alzata per andare in bagno ma non riuscivo a tenere la maniglia della
porta perché tremavo forte e avevo paura di svegliare gli altri. Mi sono ritrovata per terra in
bagno, come mi accadeva ormai da un po’, poi mi sono arrampicata sul letto a castello e non
ricordo più nulla. Mi sono svegliata sul divano con il medico che mi visitava e le facce impaurite
di mia mamma e mia nonna. È stato vedere i loro visi che mi ha profondamente spaventato più
che tutto il resto, di cui io non avevo ricordo. Mi dissero che avevo avuto una crisi e che non
mi svegliavo. Mi hanno poi immediatamente portato al Gaslini, dove sono stata ricoverata nel
reparto di neuropsichiatria infantile, ai tempi erano ancora accorpati. Fu piuttosto scioccante,
erano le vacanze di Natale, sola con mia mamma, in un reparto piuttosto trascurato e triste.
Avrei solo voluto tornare a casa e fare finta di nulla. Mi fecero tutti gli esami necessari e furono
estremamente scrupolosi, riuscirono ad indurmi una crisi e a individuare il focolaio. Mi fecero
fare anche vari test psicologici per controllare che non avessi subito danni. Mi sentivo un pacco,
non si rivolgevano quasi mai a me, parlavano con mia mamma. Mi diedero una cura, visto che
funzionava, e tornai a casa. Fu consigliato ai miei genitori di non dire nulla a nessuno e così
fecero.
Questo però per me fu fonte di grande frustrazione e rabbia. Dovevo continuare con i ritmi
di prima ma era molto difficile ed avevo una forte ansia. Sono sempre stata molto diligente
a scuola, praticavo più sport a livello agonistico, facevo catechismo e poi corsi pomeridiani.
Dalla diagnosi però, una volta alla settimana dovevo andare a Genova, per tutti i controlli di
routine. Io abitavo a Savona, significava che avevo molto meno tempo a mia disposizione e
dovevo recuperare alla notte talvolta. Inoltre il farmaco mi dava dei problemi, quindi ogni tanto
mi facevano un day hospital al Gaslini per farmi tutti i controlli. Cosa ottima ma io purtroppo
non potevo dire nulla, quindi ogni tanto “sparivo” e nessuno sapeva il motivo, era piuttosto
imbarazzante con i compagni e gli amici. Crescendo questo vivere una “doppia vita” mi ha fatto
sviluppare un’altra patologia, l’anoressia di cui ho sofferto dai 18 ai 25 anni.
A 18 anni il Gaslini non mi poteva più seguire, quindi mi consigliarono un neurologo di Genova.
Questo medico però mi diede un farmaco sperimentale e nonostante mia mamma gli fece
presente che avevo degli effetti collaterali, lui mi aumentò il dosaggio senza visitarmi. Dopo
poco tempo mi venne un principio di Steven&Johonson e fui ricoverata al Santa Corona di
Pietra Ligure. Avevo febbre molto alta, rash cutaneo su tutto il corpo, la pelle si staccava ed ero
gonfia. Devo ringraziare l’infermiera che mi fece il prelievo a casa che disse ai miei di portarmi
immediatamente all’ospedale e il mio ex pediatra che parlò con il Santa Corona per avvertirli,
mi hanno salvato la vita. Il medico della mutua pensava avessi la mononucleosi e mi aveva
somministrato un altro farmaco che aveva peggiorato la situazione.
Ho ricordi molto confusi della permanenza in ospedale. Mi facevano molti controlli, soprattutto
al cuore e non sapevano mai cosa dirmi, dipendeva molto dalla risposta del mio fisico alle
dosi di cortisone, ma questo l’ho saputo molto dopo. Non capivo che mi stava succedendo,
ero molto spaventata e piangevo di nascosto. Ero una ragazzina, avevo paura non tornassi più
come prima, non capivo la gravità della situazione anche perché nessuno diceva nulla ne a me
ne ai miei genitori. Fortunatamente tutto andò bene. Ci spiegarono che avevo avuto un principio
di Steven&Johonson, probabilmente a causa del sovradosaggio del farmaco antiepilettico
ma che era meglio che non assumessi più ne penicilline ne ampicilline. Ci vollero molti mesi
perchè guarissi totalmente e un anno circa perchè l’effetto del cortisone andasse via. Io intanto
ero tornata alla mia vita frenetica: sport, concorsi, teatro, spettacolo di danza, gite. Ho fatto
volontariato al Giubileo a Roma, il mese dopo il ricovero e ho passato a pieni voti l’esame di
maturità, nonostante avessi perso un mese di scuola. Tutto questo ottenuto con grande ansia,
sforzo e sacrificio, io non lo davo a vedere ma ero al limite. Inoltre mi vergognavo molto perché
ero ancora molto gonfia per il cortisone, mi nascondevo le mani e le parti che avevano ancora i
segni del rash cutaneo. Infatti poco dopo mi sono ammalata di anoressia.
La mia famiglia ha fatto finta di nulla anche in questa occasione, ogni tanto qualche rimprovero
perché non mangiavo, ma presero molto sotto gamba la situazione. L’anoressia è progredita
velocemente e mi ha accompagnato per molti anni. Sono andata a Milano a fare l’università,
tornavo sempre più raramente anche perché i miei si erano separati e la situazione era molto
tesa.
Non sono mai stata ligia con l’assunzione dei farmaci per l’epilessia, nonostante fossi molto
precisa in tutto. Nessuno mi chiese mai perchè li “dimenticassi” sistematicamente, mi
rimproveravano. Avevo un forte rifiuto mentale di cui però ai tempi non ero affatto consapevole,
prenderli significava riconoscere ed accettare che avevo una malattia cronica.
Dopo l’episodio dello Steven&Johonson mi ha iniziato a seguire il primario del Besta. All’inizio
mi incuteva un po’ di timore ma con gli anni ho imparato ad apprezzarlo, instaurando un buon
rapporto fino ad affezzionarmi. È stato il primo neurologo a parlare con me e a spiegarmi le
cose. Iniziai ad assumere un nuovo farmaco, questa volta più “sicuro” e testato, visti i miei
precedenti. Mi copriva ma come effetto collaterale non riuscivo a svegliarmi la mattina, avevo
gli occhi come incollati. Lo dissi al neurologo, che liquidò il tutto con: “Ti abituerai”. Non mi
abituai mai, io volevo seguire le lezioni universitarie, quindi iniziai a prendere il farmaco non più
regolarmente. Inoltre in quel periodo soffrivo di anoressia e bevevo molti caffè per stare in piedi,
quindi iniziai ad avere qualche breve crisi. Il mio neurologo era sempre molto attento quando
dovevo assumere degli altri farmaci, per evitare le interazioni del caso. Mi richiamava sempre
in caso di necessità, era molto disponibile, anche quando ebbi una crisi notturna mi disse
subito come procedere. Questo è molto importante se si soffre di epilessia. Essere seguiti
adeguatamente e in tempi brevi, è fondamentale. Inoltre fu proprio il mio neurologo a farmi
notare che avevo una malattia, l’anoressia, che dovevo farmi aiutare e che con l’epilessia stavo
ancor di più mettendo a repentaglio la mia salute.
Purtroppo i disturbi alimentari sono malattie infide, piano piano si perde lucidità, è la malattia
che prende il controllo della vita, non sei più te stesso ma non te ne rendi conto.
Nel 2005, a 24 anni, mi ricoverai in Svizzera per curare l’anoressia. Decisi di smettere di prendere
il farmaco per l’epilessia e lo comunicai al neurologo. Lui era molto contento che mi facessi
curare ma non era molto d’accordo sulla mia decisione riguardo il farmaco. Lo rassicurai, visto
che mi trovavo in un ambiente controllato con un medico al suo interno, volevo tentare, se non
avesse funzionato avrei ripreso il farmaco.
Da quando mi sono ammalata di epilessia mi era sempre stato ripetuto: “Vedrai tra 5 anni ti
toglieremo il farmaco se tutto va bene”. Gli anni passavano ma il farmaco non me lo toglievano,
io però ci speravo sempre. Essere una ragazza e poi donna con l’epilessia ha una sua
connotazione particolare psicologica che non andrebbe sottovalutata. Io non ho mai potuto
assumere la pillola anticoncezionale, sapevo che avere una gravidanza con i farmaci era molto
pericoloso e difficile. Questo mi faceva sentire molto triste, preoccupata per il mio futuro e
all’interno di una relazione sempre in difetto.
Dopo un anno di permanenza nel centro per i disturbi alimentari in Svizzera, mi sono ricostruita
una vita, ho trovato un buon lavoro e sono andata ad abitare da sola a Como. È stato un
percorso molto lungo e doloroso quello verso la guarigione dall’anoressia. Ogni weekend
tornavo nel centro per essere controllata e avevo due colloqui settimanali con il terapeuta.
Questo il primo anno dopo la dimissione dal centro, visto che mi era stato consigliato di non
rientrare in famiglia. Ho continuato i colloqui ancora per alcuni anni, nonostante non fosse
semplice con i ritmi di studio e lavoro che avevo. Ho smesso la terapia psicologica per un certo
periodo, visto che non vedevo riscontri e molto più avanti ho ripreso.
Sono completamente guarita dall’anoressia e da tutto ciò che vi era legato: iperattività,
dismorfismo, forte ansia, compulsioni e così via. Il percorso terapeutico ha messo in luce il
problema della mia non accettazione dell’epilessia, del forte senso di inadeguatezza e di colpa
che avevo, su cui ho dovuto lavorare tanto.
Da quando ho sospeso il farmaco sono stata senza crisi epilettiche per circa 5 anni. Nel
frattempo mi sono laureata, ho vinto dei concorsi, ho intrapreso nuovi lavori e mi sono trasferita
a Milano. Purtroppo ho iniziato ad avere delle assenze verso i 30 anni, fu il mio fidanzato di
allora ad accorgersene. Ho iniziato a non sentire più le gambe, prima solo appena sveglia, poi
a cascare in terra durante il giorno. Ero incredula e spaventata, non mi era mai successo così e
mai durante il giorno. Le mie crisi erano sempre avvenute nel periodo veglia-sonno. Sono tornata
dal neurologo il quale mi ha dato la vecchia cura ma non funzionava, lui però non si sentiva di
cambiarla, visto i miei problemi con i farmaci dopo l’episodio dello Steven&Johonson.
Quindi dato che le crisi erano sempre più frequenti ed io ero sempre più spaventata, ho provato
ad andare da un altro neurologo anche se con grande riluttanza.
In tutto questo c’è da ricordare che io non ne avevo mai parlato con nessuno, se non con i
fidanzati, per correttezza, quindi non sapevo come gestire le relazioni che avevo. Mi vergognavo
molto di quello che mi stava succedendo e mi sentivo sola. Ero anche molto preoccupata
perchè non riuscivo più a mantenere gli stessi ritmi lavorativi e avevo il terrore mi accadessero le
crisi davanti ad altre persone.
Così nel 2011 è iniziato il mio calvario: vari neurologi, nuovi farmaci, cadute e quindi visite
ortopediche, esami e terapie per rimettermi in sesto ogni volta che mi facevo male. Ho iniziato
ad avere dolori cronici, problemi alla vista, a non dormire più la notte, crisi sempre più frequenti
ma a differenza di prima non riuscivo ad avere il tempo di mettermi in “salvo” o a riconoscere
i segnali. Ero sempre più triste, non avevo più la mia vita, la mia indipendenza, non vedevo via
d’uscita, ero sempre più chiusa in me ed isolata, mi sentivo inutile. Cosa potevo dire ai miei amici
che non sapevano nulla? I farmaci non solo non mi coprivano bene ma mi davano molti effetti
collaterali.
Mi sono rifugiata in una relazione tossica, sono andata a convivere con il mio fidanzato
storico di allora, trasferendomi a Genova, pensando che mi avrebbe aiutato, invece questo ha
notevolmente peggiorato le cose. Nonostante stessi molto male, mi occupavo di tutto io in
casa. Mi sforzava ad uscire anche se spesso non riuscivo a seguire i discorsi, avevo troppa
confusione mentale e avevo timore di avere una crisi davanti agli altri. Mi sentivo in colpa e
cercavo di essere “normale”. Ero a disagio anche con i miei familiari, ero stufa di frasi come:
“Tanto stai sempre male”,”Non hai un cancro” o “Anche tuo zio è epilettico”. Motivo per cui mi fu
consigliato dal neurologo di ritornare in terapia per farmi aiutare. Provavo una forte prostrazione
e senso di impotenza ogni volta che andavo dal neurologo, mi sentivo una cavia, tornavo a casa
senza risposte certe e stavo sempre male. Avrei però preso qualunque cosa mi avesse fatto
stare bene.
Nel 2017 finalmente ho trovato un farmaco che mi teneva sotto controllo le crisi e tutto è
cambiato. Ho ripreso piano piano forza, lucidità e sono scappata da quella casa e da quella
relazione. Ho fatto un bel percorso terapeutico affrontando tutto ciò che era emerso. Sono
andata da un nutrizionista, ho ricominciato a lavorare, ho ripreso con lo yoga e ho iniziato a fare
meditazione. Insomma sembrava tutto tornato a posto. In realtà il mio fisico era molto debilitato
da tutti quei farmaci che mi erano stati dati anche in doppia assunzione insieme e in un breve
lasso di tempo.
Ho iniziato ad ammalarmi, cosa che non mi succedeva mai prima, ho sempre avuto un fisico
forte, nonostante tutto. Continue “infreddature” che sottovalutavo, continuando con i miei
ritmi di lavoro, impegni vari e con i miei viaggi in treno. Finchè in montagna non ebbi una forte
reazione allergica che mi passò dopo che il medico mi diede un antistaminico e un cortisonico.
Al ritorno a casa mi ammalai, sembrava influenza invece dopo vari esami mi diagnosticarono una
bronchite da clebsiella. Non conoscendo il mio farmaco per l’epilessia non mi curavano, i tempi
si dilatavano e mi venne un principio di pleurite stavo malissimo. Il neurologo che mi seguiva
non mi rispondeva mai ne al telefono ne alle email, ero disperata. Allora chiamai il Besta, mi
dissero subito come procedere e così venni finalmente curata. Continuavo però a tossire, avevo
la gola gonfia, avevo perso la mia voce e non stavo bene anche dopo 4 mesi che la bronchite era
ormai guarita.
Sono stata ricoverata, ero sempre più debilitata per i continui farmaci ed esami anche invasivi
che mi facevano. Avevo un’infezione dietro l’altra urinaria, non avevo più la mia voce e i continui
esami erano solo una tortura, non davano esiti significativi. I medici tranquillizzati dal fatto che
non avessi organi compromessi o qualcosa di grave mi fecero tornare finalmente a casa. Però
stavo sempre male, avevo perso fiducia nei medici ed ero scoraggiata. Telefonai al pneumologo
che mi aveva curato e seguito nel mio iter di esami, mi consigliò di provare di nuovo con
l’antistaminico e di concentrarmi sugli esami per le allergie.
Dopo l’assunzione dell’antistaminico piano piano ho iniziato a sentirmi sempre meglio, finché
ho riacquistato la mia voce e la gola è sgonfiata, ero molto felice. Dopo tutti gli esami fatti nel
centro per le allergie, dato che gli esami erano negativi o non particolarmente rilevanti ma le
reazioni allergiche c’erano, l’allergologa mi ha dato l’antistaminico da assumere quotidianamente
ed alcune linee guida da seguire. Secondo il suo parere era probabile fossero scatenate
dall’antiepilettico, come altri disturbi che avevo.
Ad oggi sto bene, ho una buona qualità di vita e sono riuscita a fare tante cose che secondo
alcuni medici non avrei più potuto fare. Questo non significa che magari non dovrò calibrare
ancora la mia cura per l’epilessia oppure cambiarla ma sono serena, so che posso farcela, non
mi sento più sola.
La mia storia mi ha insegnato molte cose. Prima di tutto a non vergognarmi più e a non sentirmi
in colpa, nessuno sceglie di ammalarsi. Da quando ho raccontato la mia storia a tutte le
persone che mi sono vicine mi sono sentita più sicura e rinfrancata, è un sollievo non doversi
più nascondere. Le reazioni sono state molto tranquillizzanti, mi hanno fatto molte domande,
per capire meglio e sapere come essermi utile, in caso. Nessuno mi ha fatto sentire diversa.
Piuttosto si sono stupiti di come avessi fatto a tenermi tutto dentro per tanto tempo e a fare
tutte le cose che ho fatto nella mia vita.
Parlare è molto importante, per scardinare tabù ed ignoranza che ancora sono molto presenti
anche, purtroppo, in ambito medico. Ho capito che devo costruire un rapporto paritetico e
di fiducia con i medici che mi seguono e se qualcosa non mi convince devo esprimere le mie
perplessità. Se un medico non riesce ad aiutarmi devo cambiare perchè tutti hanno dei limiti
anche i medici, magari un altro medico può essermi utile. Ho incontrato medici pieni di sé,
con un pessimo tatto ma altrettanti competenti ed aperti mentalmente. Ho capito che devo
ascoltare e rispettare i segnali che il mio corpo mi da. Ho scoperto che il mio corpo può
affrontare meglio tante cose grazie alla meditazione, lo yoga, lo shiatsu e con altre pratiche
olistiche.
Ho iniziato a collaborare con un’associazione per i disturbi alimentari. Vedere tante persone
sollevate ed incoraggiante dalle mie parole mi ha dato coraggio per cercare di fare altrettanto
con l’epilessia, nel mio piccolo.
Vorrei che la mia storia fosse utile, che qualunque persona e soprattutto minore si trovi ad
affrontare una malattia, possa avere tutto il supporto psicologico possibile e cure più mirate.
Vorrei tanto che le malattie legate al cervello facessero meno paura, che siano di natura fisica o
psicologica. Il cervello è un organo come tutti gli altri. Nessuno deve sentirsi fallato perchè si è
ammalato, come è successo a me. Si possono fare tantissime cose comunque, basta solo avere
rispetto per se stessi, amarsi, conoscere i propri tempi e limiti.
Sarebbe bello che anche le famiglie fossero supportate ed aiutate. Non tutti hanno la forza o
gli strumenti per affrontare certe situazioni. Le famiglie sono molto importanti nel processo di
sostegno e di guarigione dei pazienti. Se invece non vengono adeguatamente aiutate possono
creare involontariamente danni, come è successo nel mio caso.

Barbara. Il mio cervello ha qualcosa che non va