mi presento: sono Valentina, studentessa del sesto anno di medicina e chirurgia, corso a cui
ammetto di essermi avvicinata senza un’idea precisa di cosa sarei voluta diventare – come del
resto succede nella maggior parte dei casi – ma più attratta dall’ambito relazione e umano,
innegabile in questa professione.
E convengo, come già emerso durante la presentazione del corso e come sempre più si sta
prendendo coscienza, sul fatto che tra tutte le scienze la medicina è forse la più “umanistica” di
tutte perché ha per oggetto la salute del corpo e della mente ed è legata indissolubilmente alla vita
e alle speranze degli esseri umani.
Come ha già detto qualcuno da quando veniamo al mondo, in un modo o nell’altro, chi più chi
meno, siamo tutti pazienti.
L’episodio di malattia, il mio, che voglio raccontare oggi risale a qualche anno fa.
Sono sempre stata una persona mediamente attiva, da piccola ho giocato per anni a pallavolo,
sport a cui in realtà ero legata più per la compagnia di amiche che per la passione sportiva vera e
propria, per cui quando il gruppo si è sciolto e sono subentrati altri impegni scolastici e di vita, ho
abbandonato. Negli anni seguenti per mantenere un minimo di attività ho frequentato la palestra,
che rappresentava per me un impegno comodamente gestibile nelle pause libere senza vincolarmi
ad orari fissi.
Era il 2017 e durante uno dei miei allenamenti (non che facessi grandi cose!) ricordo un dolore
puntorio localizzato a livello dell’inguine destro. Lì per lì non me ne sono preoccupata e non ci ho
dato peso e in effetti nei giorni successivi il dolore è migliorato e io ho ripreso le mie attività,
compresa la palestra. Ogni volta che sforzavo, però, anche di poco, il fastidio e la sensazione di
peso tornava e così è andata avanti a singhiozzi per qualche mese. Io minimizzavo l’accaduto,
d’altronde chi non prova qualche dolore ogni tanto? Inoltre non facevo certo un’attività fisica
pesante, intensa, né eccessivamente assidua e questo mi rassicurava.
Non ricordo di averne parlato con qualcuno, forse avevo accennato qualcosa in famiglia ma il mio
problema non sembrava rappresentare qualcosa di acuto, né allarmante sul momento. Così le
nostre vite hanno continuato a scorrere. Non ricordo come ma questo dolore – che faticavo anche
a descrivere – è cresciuto gradualmente ed è diventato un sottofondo costante, soprattutto da
metà giornata in poi e alla sera, in particolare quando seduta o in piedi da molto tempo e diventava
fastidioso anche quando sdraiata sul divano, infine nel momento dell’addormentamento facevo
fatica a prendere sonno su quel lato. Ho interrotto completamente qualsiasi attività fisica, solo
dopo ho compreso come questo mi abbia fatto più male che bene.
Onestamente ho dei ricordi un po’ sfumati di quel periodo, era primavera ed ero presa
dall’università, dalla frequentazione e dagli esami che si avvicinavano. Il dolore era altalenante,
non sempre uguale e più assimilabile ad un fastidio. Io continuavo a minimizzare dando la colpa
ora alla postura e allo stare a lungo seduta, ora alla mia abituale tensione muscolare; pensavo
davvero che sarebbe stato qualcosa di passeggero. Le cose però non miglioravano… Ricordo
ancora quando un giorno, durante una passeggiata non troppo lontano da casa, il dolore divenne
più fastidioso del solito tanto che presi in considerazione l’idea di chiamare qualcuno per farmi
venire a prendere.
Iniziai il giro di ecografie, ma ognuna si concludeva più o meno allo stesso modo: nessuna
evidenza di danno muscolare, tendineo o altro. Eppure il male c’è, dicevo. Ma a quell’obiezione
nessuno sembrava rispondere. Dal punto di vista medico non si rilevava niente e quello era
l’importante, “Non sei contenta?” mi sentivo dire. Così mi convincevo che era tutto a posto e che
sarebbe passato.

Ricordo che quel periodo fu abbastanza teso, ma io per carattere tendo a chiudermi in me stessa
rendendo difficile agli altri porgermi aiuto.
Alla fine, a due giorni da quello che all’epoca era uno degli esami più temuti del corso, feci una
risonanza per venire ulteriormente a capo alla faccenda, dato che era passato ormai qualche
mese. La risonanza non vedeva nulla a livello muscolo-tendineo, ma individuava un “qualcosa”
all’annesso destro, niente di preoccupante dicevano, ma da vedere meglio all’ecografia.
Per cui il percorso muscolo-scheletrico fu bruscamente sviato verso quello ginecologico.
Riassumendo il periodo successivo, feci la visita ginecologica, ma in realtà quel reperto non era
nulla di ché probabilmente un corpo luteo emorragico o qualcosa del genere, ma la ginecologa
sembrava attribuire a quello il mio dolore. Mi prescrisse qualche farmaco, io fui rassicurata dal fatto
che quel dolore aveva un nome e che poteva regredire. L’estate passò tranquilla, o comunque in
grandissimo miglioramento.
Poi a settembre gradualmente il dolore si ripresentò e fu allora che capii che non me ne sarei
liberata così in fretta. Feci altre visite, da specialisti diversi, il che aumentò probabilmente il caos
generale, ognuno aggiungeva il suo punto di vista e il suo consiglio. Gli esami ecografici
continuavano ad essere negativi. E alla fine si arrivò alla conclusione di tendinopatia inserzionale
degli adduttori. Per cui il consiglio dell’ultima fisiatra che consultai fu quello di praticare pilates in
una palestra qualificata per questo a Modena. E curiosamente fu proprio lì che imparai – parlando
con un ragazzo istruttore che soffriva anche lui di pubalgia da anni – che l’allungamento e altre
buone abitudini avrebbero potuto alleviare quella che ormai era diventata una sensazione di
peso/fastidio costante, ma che difficilmente per queste cose si ritorna al punto zero. E anzi a volte
per squilibri interni che si creano, non di rado, la condizione diventa bilaterale.
Da ventenne, la cosa che mi ha fatto più paura di tutte è stato il timore di non poter più fare cose
che adoravo come correre, sciare, camminare a lungo. Il timore che questa cosa, nel tempo,
potesse peggiorare, compromettere o limitare alcune attività.
Al contempo, la voglia e la speranza di guarire completamente il mio dolore. La cosa più difficile è
stata pensare alla parola “cronico” e iniziare a ragionare nei termini di “forse non si potrà risolvere
ora, ma solo alleviare”.
Nel tempo successivo le cose sono complessivamente molto migliorate: ho imparato a gestire il
mio corpo, a concedergli le pause di cui ha bisogno, a dargli tempo e – cosa più importante, che è
tanto mancata – ad ascoltarlo. Ci sono giorni in cui mi dimentico completamente di questo
problema e il fastidio diventa leggerissimo e impercettibile, altri giorni in cui sono più tesa, ho
tenuto posture sbagliate, ho sovraccaricato o semplicemente sono giorni “no” in cui il dolore è più
presente, ma so gestirlo.
A volte faccio ancora fatica a condividere con i miei coetanei cosa abbia significato per me questa
storia, ma alla fine mi dico che forse ognuno, nella propria storia personale, ha un punto di svolta,
di crescita, anche attraverso un episodio di malattia di sé stessi o di altri cari; e forse oggi non sarei
qui e non crederei così tanto in tutto ciò, senza quello che è accaduto.

Il mio punto di vista