Sono nato sulla terra, figlio di contadini, in collina a San Valentino di Castellarano, splendida vista
sull’Appennino, sono nato una notte di fine inverno, alla fine di una abbondante nevicata che si
era portata via la corrente elettrica, sono nato grazie all’ostetrica del paese al lume di candela.
Famiglia patriarcale: padre, madre e quattro figli più una nuora (mia madre). Io il primo nipote,
amato e coccolato più degli altri venuti dopo. Infanzia felice e spensierata piena di ricordi
stupendi. Sono stato un bimbo felice.
Subito prima della scuola elementare i miei genitori si sono trasferiti in affitto a Fiorano, in via
Malmusi sotto il Santuario, tra una stalla, un caseificio, un macello e il rio Corlo lungo il quale
scendevano i primi camion carichi di quell’argilla dei calanchi che stava diventando la nostra
ricchezza.
A scuola la maestra insegnava con la bacchetta, si scriveva con inchiostro e calamaio e si veniva
bocciati ma io continuavo ad essere un bimbo felice, giocavo tutti i pomeriggi in cortile e la sera ci
si trovava nelle case dove c’erano i primi televisori a due canali in bianco e nero.
Poi anche a casa mia è arrivato il frigorifero, il televisore, la macchina e le prime vacanze con la
famiglia a Marina di Ravenna.
Le medie sono state più dure, all’esame di terza media si portavano ablativo assoluto e perifrastica
attiva e passiva, si scriveva con la penna a sfera ma si continuava a bocciare e molti miei compagni
hanno iniziato a lavorare. E di lavoro ce ne era tanto per tutti non solo per i miei genitori che
intanto maturavano un progetto ben preciso: avere una casa tutta loro di proprietà dove ci fosse
spazio anche in futuro per i figli. A questo progetto loro hanno dedicato tutte le loro risorse e i loro
anni migliori. Io e mio fratello dovevamo andare a scuola, quello era il nostro lavoro mentre loro
andavano in ceramica. Tutto il tempo libero ed i giorni di festa si lavorava insieme a terminare
poco per volta la nuova casa nella quale si siamo trasferiti un mese prima del mio esame di
maturità.
In prima superiore per la prima volta mi sono trovato in una classe mista a dover capire quanto le
ragazze fossero complicate e bellissime, troppo complicate, pericolose ed intelligenti.
Al liceo le differenti estrazioni sociali erano molto evidenti e segnate, ho provato invidia, senso di
inadeguatezza e molta fame di riuscire a dimostrare che potevo farcela anche io.
Tra il secondo ed il terzo anno ero deciso ad abbandonare la scuola. I miei genitori mi hanno
lasciato libero di decidere e all’inizio delle vacanze estive sono andato a lavorare in ceramica ad
otto chilometri da casa, tragitto che facevo due volte al giorno in bicicletta con qualsiasi tempo. In
quegli anni la classe operaia nelle ceramiche era di diversa estrazione sociale e di diversa
provenienza ma mediamente molto giovane e sprovvista delle attuali automazioni. In quei mesi di
lavoro duro, a contatto con quei compagni di lavoro poco più grandi di me, che condividevano le
loro difficoltà domestiche e relazionali, i loro problemi, le loro fatiche, la loro insoddisfazione, ho
capito che non era quella la vita che volevo e che se volevo una vita diversa e più libera dovevo
tornare di corsa al mio liceo.
Di questo ringrazio i miei genitori che senza farmi nessun discorso mi hanno fatto terminare di
corsa e con grandissima motivazione i miei studi superiori.
Ho poi un altro ricordo molto chiaro: di li a poco sarei stato chiamato in commissione di esame per
la maturità e guardando fuori dalla finestra del corridoio del mio istituto riflettevo sul mio futuro.
Avevo da mesi una idea chiarissima in testa: se fossi uscito dal liceo avrei dovuto trovarmi un
lavoro che mi lasciasse un sacco di tempo libero per coltivare i tanti interessi che in quegli anni
avevo. Volevo sentirmi libero di inseguire i miei sogni.
Fu così che ottenuta la maturità e finalmente libero mi trovai a fine ottobre con l’urgenza di
decidere cosa fare del mio futuro.

Primo pensiero: iscrivermi a storia e filosofia. Cancellato per troppa paura di finire deluso e
frustrato come i miei insegnanti sessantottini del liceo.
Secondo pensiero: ingegneria ma poi vivere da dipendente con orari fissi ed obbligati? Mai!
Così fui folgorato da un terzo pensiero: il mio vecchio medico di famiglia, con il quale per motivi
anagrafici non avevo ancora avuto grandi frequentazioni, faceva ambulatorio mezza giornata ed
era libero di organizzare il suo lavoro. Mi sembrava la soluzione perfetta ed ideale per me
esattamente quello che volevo: nessun padrone e tanto tempo libero.
I miei genitori mi hanno trasmesso un grande senso del dovere e della responsabilità ma non
fecero nulla per mettermi in guardia ed aprirmi gli occhi.
La mia quindi oltre a non essere stata una scelta ne vocazionale ne di carriera fu quanto di più
sbagliato possibile date le premesse e gli obiettivi che mi ero dato.
Al primo anno di corso eravamo 600 iscritti a medicina, alla fine del secondo 250, ci siamo laureati
in 160.
Al terzo anno, nell’ambito del corso di fisiopatologia respiratoria, potevamo chiedere di iniziare a
frequentare il reparto di pneumologia. Le siringhe erano solo di vetro, gli aghi da bollire, le suore ci
insegnavano a fare le prime endovene di salbutamolo diluito senza butterfly o cateterini con
quelle enormi siringhe di vetro e quegli aghi in ottone appena bolliti con la loro guida metallica e il
broncoscopio era rigido.
Ho battuto a macchina la tesi di laurea (prima a Modena sulla tipizzazione dei linfociti con
anticorpi monoclonali). Ho battuto a macchina la tesi della prima specialità. Ho continuato a
battere a macchina la tesi della seconda specialità. A lezione si usavano le diapositive o addirittura
il diafanoscopio e solo dopo sono arrivati i primi computer.
Ho visto arrivare in Medicina Interna il primo ecografo all’inizio degli anni 80.
Tralascio tutto ciò che riguarda la mia bellissima carriera universitaria ma non posso che
considerarmi ora per quanto riguarda il mio percorso formativo un dinosauro preistorico alla
ricerca di nuovi saperi e nuove competenze che mi permettano di restare in vita.
Mi ero laureato con 110 e lode ma già durante il tirocinio per l’esame di stato soprattutto in
ginecologia mi ero accorto di sapere tanto ma di non sapere comunicare e di dovere
assolutamente migliorare le mie abilità di quello che oggi si chiama counseling.
Appena abilitato un Collega mi chiese di sostituirlo in estate presso una struttura protetta.
Il mio battesimo del fuoco fu quanto di più duro potessi aspettarmi, doloroso tanto da togliermi il
sonno e l’appetito, tanto devastante da farmi pensare di abbandonare la medicina.
Mi scoprii nonostante tutti i miei studi assolutamente inadeguato a gestire la cronicità, i percorsi,
le terapie personalizzate, le copatologie ed ancora una volta le relazioni.
Poi i primi incarichi in Guardia Medica sull’appennino, da solo, lontano da tutto e dal pronto
soccorso ancora una volta senza cellulare e connessione internet.
Forse a questo punto avrete capito che in quanto ad ansia ne posso vendere tanta
Nelle notti insonni e per me eroiche di quei primi anni credo di avere ripassato e ristudiato tutti gli
appunti ed i testi di clinica che già conoscevo.
Durante le mie esperienze in Brasile avevo avuto anche modo di toccare con mano quanto fosse
diverso fare il medico li, in quegli anni di grande miseria e di dittatura militare, e farlo in Italia.
Poi venne l’insegnamento di Clinica Medica e di Medicina di Urgenza alla Scuola triennale per
Infermieri dove ho incontrato ragazze e ragazzi di ogni parte d’Italia splendidi e motivatissimi, dei
veri maestri di vita vissuta. Ricordo quegli anni come una grandissima occasione per rivedere e
riorganizzare le mie conoscenze, per razionalizzare il mio sapere, operazione non semplice ma
necessaria per rendere semplici ed assimilabili le nozioni che cercavo di trasmettere.
Di tempo e di occasioni per prepararmi ne avevo avute davvero tante.

Poi nell’Ottobre del 1988, quattro anni dopo la laurea, ecco finalmente raggiunto il mio obiettivo:
potevo finalmente aprire uno studio tutto mio come Medico di Medicina Generale.
Era una convenzione a pazienti zero in una area altamente urbanizzata ed industrializzata.
Le entrate non coprivano per niente le spese ma ero motivatissimo e presto arrivarono il successo
professionale e le gratificazioni. Io ci mettevo impegno e serietà professionale ma mi sono reso
subito conto che il successo non dipendeva tanto dal mio sapere ma dalla mia capacità di
ascoltare. Tutte le volte che non ascoltavo a sufficienza con le antenne dritte ed i neuroni a
specchio attivati mi perdevo qualcosa ed inevitabilmente il paziente tornava a trovarmi spesso con
lo stesso problema. Ho capito che spesso i bisogni di una persona in difficoltà sono incolmabili
come un pozzo di San Patrizio, che le loro aspettative nei miei confronti vanno oltre le mie risorse
ma sempre mi sento chiamato in causa e sperimento i miei limiti. Così giorno dopo giorno loro mi
hanno insegnato ad ascoltare e a trovare il tempo per ascoltare. Per me tempo di imparare.
Così sono più di trentacinque anni che li ascolto e che imparo da loro.
Ancora oggi non sono pochi quelli che andando oltre la mia intelligenza e la mia fantasia mi
stupiscono con le loro storie, i loro vissuti, il loro modo di leggere la realtà, i loro sogni, le loro
priorità, il loro mondo dei valori, le loro risposte a domande esistenziali.
Molti anni fa mi sono laureato in Medicina e Chirurgia, mi hanno proclamato Dottore ma oggi
mentre io perdo pezzi importanti del mio sapere cognitivo di base loro, i miei pazienti, hanno fatto
di me un uomo migliore, un Medico forse abbastanza capace di fare il Medico e di saper essere un
Medico. Oggi amo moltissimo la Medicina e la mia professione.
Ho anche sempre amato la montagna e la bicicletta.
Credo di avere mantenuto stili di vita abbastanza corretti e di essere stato sempre consapevole, fin
dai primi anni, di quali erano i rischi legati alla mia attività professionale: sedentarietà, stress ed
irregolarità dei pasti.
Così pian piano il mio nemico è arrivato.
Qualche hanno fa ho cominciato a sentire che le gambe non pedalavano più come prima, poi ho
cominciato a perdere peso, poi un giorno mi sono trovato con la bocca asciutta.
Come era possibile? Non ho nessuna famigliarità. Non avevo mai sete, non urinavo tanto.
Non volevo crederci. Poi un pomeriggio come tanti in ambulatorio poco ci manca che mi
addormenti davanti ad un paziente. Dopo averci pensato per qualche giorno, non ero sicuro di
volerlo sapere, ho preso striscia, glucometro e pungidito. Un glucosio postprandiale di 350.
Avrei tanto voluto fare lo struzzo, modificare l’alimentazione e non pensarci più ma cavolo non era
quello che invitavo i miei pazienti a fare, con loro mi comportavo in modo diverso, prevenzione,
diagnosi precoce, attento monitoraggio ecc. un vero rompipalle.
Così, spinto da una questione di coerenza, mi sono auto prescritto una serie di accertamenti di
laboratorio e mi sono diagnosticato un Diabete Mellito 1,5 LADA autoimmune.
La cosa non mi è piaciuta per niente, era la prima volta che avevo un vero problema di salute, un
problema che non potevo risolvere e guarire ma solo curare, qualcosa contro cui avrei dovuto
combattere senza tregua e senza nessuna speranza di vincere, riportando continue ferite nella
sola speranza di allontanare la resa dei conti.
Poi cercavo di consolarmi: in fondo per il semplice fatto di essere un diabetico avevo lo stesso
rischio di un ex infartuato di andare incontro ad un infarto miocardico acuto che tutto sommato è
la morte che molti si augurano, molto meglio che doversene andare per altre cause come
neoplasie o gravi patologie neurodegenerative.
Fatta la diagnosi , una domenica, ho riunito la famiglia e ho comunicato che qualcosa era
cambiato.
Sono stati bravi, credo che abbiano perfettamente capito, li ho visti preoccupati ma non smarriti,
disposti a farsi carico del mio problema, nessun compatimento o falsa rassicurazione.

Alla fine, spinto sicuramente dal bisogno di parlarne con qualcuno, ho deciso che non volevo
curarmi da solo ma che volevo essere un paziente, un bravo paziente, volevo essere preso per
mano e guidato e mi sarei lasciato guidare.
Così dopo avere cercato inutilmente un Collega Diabetologo che non mi conoscesse mi sono
rivolto allo specialista. E mi sono trovato molto bene, accolto, messo a mio agio, ho condiviso tutte
le scelte e le strategie terapeutiche, il percorso di cura.
Certo quando ci siamo salutati io ero il paziente, che se ne andava con il suo problema.
Lui il medico che continuava la sua vita, certamente non senza i suoi di problemi.
Ho sempre avuto consapevolezza e sperimentato di persona quanto possa essere grande il gap tra
le risposte del medico ed i bisogni di un paziente ma sentivo che quel medico aveva fatto per me
del suo meglio, ed io credo che di più non si possa chiedere a nessuno.
Per questo ha e continua ad avere tutta la mia stima e la mia gratitudine.
Oggi mangio meglio, non riesco a fare più attività fisica, assumo due farmaci antidiabetici e
l’insulina. Non mi sento più di arrampicare, l’ultima volta non ho saputo gestire le mie risorse e per
poco non rischio la vita, ora mi preoccupa anche fare una ferrata, per andare sui grippi o scollinare
adesso uso una bici a pedalata assistita.
Così con gli anni, come inevitabilmente accade, è arrivata la malattia ed anche io mi sono ritrovato
dall’altra parte della scrivania a pensare che non sono più l’uomo ed il ragazzo di una volta, che
devo ripensarmi finito e limitato ma anche se la malattia mi spaventa perché la conosco, tutto
quello che ho appreso nell’esercizio della professione dai miei pazienti anziani, malati, cronici,
moribondi mi è di grande aiuto per guardare avanti con serenità, consapevolezza e
determinazione.
Dopo tanti anni di professione c’è un posto magico nel mio paese che mi da un grande senso di
pace e di serenità, che mi aiuta a resettarmi e a rimotivarmi, che rimette a posto valori e priorità,
un posto dove trovo tanti libri aperti di tanti generi e di tanti autori diversi che ho già avuto la
fortuna di leggere, qualche volta anche di correggere ma sempre con mano leggera senza mai
strappare le pagine, sempre con la voglia di capire, libri vivi che anche oggi continuano a farmi
riflettere, che parlano ancora alla mia mente e al mio cuore.
Sono sempre lì in ordine al loro posto ed io li conosco quasi tutti, so quasi tutto di loro, del loro
lavoro, delle loro famiglie, delle loro relazioni, delle loro malattie ed anche di come ci siamo
lasciati l’ultima volta.
Con loro non ci sono più parole ma il pensiero corre veloce a tutto ciò che è stato.
Fanno parte nel bene e nel male della mia vita e ancora mi confronto con loro, rileggo la mia storia
e riparto con il cuore carico e leggero.
Consapevole di quanto io sia fortunato
Per i miei genitori che non mi hanno impedito di fare Medicina,
per mia moglie ed i miei figli che hanno condiviso e pagato tutto il tempo che serviva,
per le persone che ho avuto la fortuna di incontrare, di curare, di farmi carico, di sostenere,
per la possibilità finora di esercitare in modo libero e coerente.
Fortunato nonostante avverta sempre più il peso di una professione pesante, difficile, complicata,
che non sarò in grado di sostenere ancora a lungo e che non lascia più sufficiente spazio
all’essenziale, alla mia anima, al mio bisogno di pensare, di restituire il tempo preso in prestito e di
dare un senso alle cose.
Se rinasco faccio la guardia forestale!

La vita può essere vissuta solo in avanti, ma può essere capita solo all’indietro.