Mi chiamo Paola, sono infermiera e caregiver e sono stata una paziente.
Come infermiera ho una lunga esperienza in clinica e numerose storie di “buone
pratiche” da raccontare, che mi hanno insegnato le persone che ho assistito.
Vorrei condividere con voi quella per me più “sconveniente”.
Ho iniziato a lavorare nel 1993 subito dopo il diploma presso il reparto di
pneumologia. Nei primi anni della mia attività lavorativa mi sono impegnata molto
per diventare una “buona professionista”, non solo da un punto di vista tecnico ma
anche umano: non sono state poche le volte che, dopo il turno di lavoro, a cartellino
smarcato sono rimasta accanto a quei pazienti soli per lenire la loro sofferenza. In
altre occasioni acquistavo biancheria e pigiami per le persone che non ne
possedevano o che erano state abbandonate dai loro cari e potrei continuare ancora
con altri esempi, ma lo farei solo per influenzare la vostra opinione su di me come
professionista.
Carlo, nome di fantasia, era un signore di circa 60 anni, sposato e padre di due figli
ormai grandi. Ho conosciuto Carlo al suo primo ricovero, nel 1998 per “Emoftoe,
febbricola e astenia da eziologia sconosciuta”; segni e sintomi premonitori di un
tumore polmonare che gli fu diagnosticato durante il ricovero.
Carlo fin da subito espresse l’intenzione di curarsi, chiese di fare tutte le terapie
possibili per guarire o ritardare la crescita del tumore. Era una persona piena di vita
e di speranza, supportato dalla sua famiglia. Ricordo ogni ricovero successivo alla
diagnosi, durante i quali venivano infusi i farmaci chemioterapici (allora la
chemioterapia era somministrata solo in regime di ricovero). Spesso io stessa
preparavo quei farmaci, mi sedevo accanto a Carlo e parlavamo mentre la terapia
veniva infusa, mentre i minuti e le ore scorrevano nella sua stanza da sei posti letto.
Tra quelle pareti bianche ascoltai le sue paure, le sue speranze, le sue
preoccupazioni per i figli, la moglie … spesso abbiamo riso insieme, anche con agli
altri degenti perché la vita in ospedale non è fatta solo di iniezioni e visite mediche
ma anche di umanità.
A volte però è difficile rimanere “umani”, come capita quando devi assistere 38
persone e sei da sola in turno di notte.
In un reparto di pneumologia la notte non è fatta per dormire: spesso le persone
con problemi polmonari soffrono di dispnea, hanno bisogno di mettersi sedute sul
letto, hanno bisogno dell’ossigenoterapia, sperimentano angoscia, necessitano di
andare in bagno più spesso o semplicemente la loro condizione le tiene sveglie.

In un reparto di pneumologia la notte era cadenzata dal rumore dei campanelli ai
quali corrispondeva un bisogno specifico; a volte era un’urgenza che svegliava tutti i
degenti, anche quelli che faticosamente avevano incontrato Morfeo, e tacitamente
gettava tutti nello sconforto quando il lenzuolo del letto ricopriva interamente il
paziente e questo veniva trasportato in un misterioso stanzino ubicato nel corridoio
del reparto.
In un reparto di pneumologia la notte si era sempre “di guardia”, ciò significava che
il pronto soccorso poteva inviarci i pazienti a qualsiasi ora.
Carlo conosceva tutti questi aspetti del reparto, ormai era quasi un anno che lo
frequentava come degente e conosceva anche quei momenti che ci vedevano
impegnati, pazienti e sanitari, in attività più piacevoli: fare insieme l’albero di Natale,
impacchettare finti doni per adornarlo, esultare per la vincita della propria squadra
di calcio … insomma tutti quei momenti che compongono la vita e fanno di un
reparto un microcosmo “umano”.
Il tumore di Carlo invase il suo corpo: si impossessò di lui nel breve giro di alcuni
mesi e la sua condizione clinica cambiò.
Fermo a letto, con l’ossigeno terapia, anche alimentarsi da solo era per lui faticoso.
La famiglia, sempre presente, coglieva ogni occasione per fermarmi fuori dalla
stanza, per chiedere speranzosi se c’erano stati piccoli miglioramenti, per strappare
buone notizie e alla fine per piangere.
Ho sofferto con e per Carlo, spesso mi sono sentita impotente, inadeguata. I suoi
occhi cercavano nei miei una sponda per potersi lasciare andare, per poter parlare
della sua morte, per darle un significato. Guardava me con la speranza che l’avrei
aiutato in questo. Ma ero molto giovane, il mio percorso di studio non mi aveva
preparato a questo, ed io stessa ero convinta che la sua sofferenza fosse una mia
sconfitta professionale.
Fu forse per questi motivi che cominciai a “distaccarmi” lentamente da Carlo, ad
assisterlo come il paziente del letto numero “30”.
Una notte, nel reparto di pneumologia, Carlo suonò il campanello insistentemente:
si sentiva inquieto e, da prescrizione, gli somministrai la terapia al bisogno. Richiamò
e questa volta aveva sete; richiamò ancora per farsi allungare il pappagallo e
sistemarsi meglio nel letto. Un altro campanello: questa volta faceva fatica a
respirare, chiamai il medico che gli prescrisse la terapia, senza beneficio. Mentre lo
controllavo mi disse che non si sentiva ancora bene, richiamai il medico che questa
volta non venne a visitarlo e mi liquidò con una prescrizione di placebo.
Ero esausta fisicamente e moralmente, oltre a Carlo quella notte ci furono due
ricoveri e un “decesso” ed ero sola. All’ennesimo campanello provai stizza,
irritazione nei suoi confronti e tra me pensai “ancora …cos’altro vuole”.
Carlo morì mezz’ora dopo.
Questo è il racconto mio e di Carlo, mio maestro di “estrema vita” che mi ha
insegnato a leggere le emozioni, anche quelle scomode, e a farne la pietra angolare
su cui poggia un “caring” che non si legge sui libri ma si concretizza in quello spazio
umano indicibile e fragile che avviene quando due anime si incontrano.
Cosa ho imparato: a non perdere mai di vista la persona a discapito della malattia.
L’organizzazione del lavoro e lo stress conseguente all’esercizio di una “professione
di aiuto” possono influire sulla qualità dell’assistenza (e sull’operatore).
Cosa vorrei trasmettere: i professionisti debbono continuare a mantenere
l’attenzione sugli aspetti organizzativi del proprio lavoro, per favorire il “benessere”
e la “saluto genesi” dei loro assistiti e di loro stessi in un’ottica ecologica (siamo tutti
in tandem).

Il paziente del letto numero 30