Mi chiamo Sara, ho 28 anni e da circa 5 anni sono infermiera, una scelta professionale fatta consapevolmente
dopo una lunga riflessione che mi ha portato a mettere in secondo piano la strada della formazione. Mi piace
molto il mio lavoro, anzi ogni anno che passa sempre di più; sono vari gli aspetti che mi danno soddisfazione
e il filo che li lega sta nel fatto che la crescita professionale si intreccia inestricabilmente con quella personale
e la mano che opera è la relazione con l’altro, la persona umana sia essa sana, malata, guarita, o in fin di vita.
In questi anni ho capito che non basta una laurea per diventare infermiere, “essere infermiere” è un percorso
che va oltre, è complesso e fatto di gesti, pensieri, ragionamenti, emozioni, parole, ostacoli, limiti, spinte e
rischi intrecciati con la proprio storia e i propri ruoli extraprofessionali di figlia, amica, sorella, baby runner…e
nipote.
Quello che vorrei raccontarvi è un semplice aneddoto in cui si intrecciano il ruolo di infermiera e nipote, che
come altri episodi mi ha insegnato un significato dell’essere caregiver che sui libri fino ad allora non avevo
trovato.
L’assistito di cui vi racconto e che sto per introdurre è nonno Enrico, ma non sarà lui il protagonista bensì mio
cugino Aldo.
Nonno Enrico ha 97 anni, da circa 4 anni è totalmente dipendente, ormai non è più in grado di utilizzare gli
arti e risponde solo alle domande o comandi semplici. Il suo è stato un percorso di decadimento funzionale
e cognitivo graduale, non è una malattia vera e propria, non ha una diagnosi precisa, è uno stato di “fragilità”.
È come essere costantemente in bilico; ci sono giorni in cui è stabile e è più responsivo, sebbene
costantemente e lentamente le sue funzioni si riducono, e giorni in cui, a causa di infezioni ricorrenti, sembra
essere a pochi passi dalla fine. Il percorso che lo ha portato a definirsi soggetto fragile seppur graduale e non
irrompente ha cambiato molto la nostra famiglia, stravolgendo le dinamiche relazionali e ridimensionando i
ruoli. Non è stato facile prendersi cura del nonno soprattutto all’inizio, c’è voluto tempo, impegno, risorse e
creatività e tutto’ora è così, ma ciascun membro della famiglia ha identificato il suo ruolo e si è quindi trovato
un po’ di equilibrio. E così sono diventata l’infermiera di famiglia dedicandomi nell’assistenza al nonno con
prestazioni infermieristiche quali sostituire il catetere vescicale, effettuare medicazioni, misurare i parametri
vitali, somministrare la terapia endovenosa secondo le prescrizioni di zia Elisa, che è medico, ma dopo aver
osservato l’operare di altri membri famigliari mi è chiaro ormai che nonostante la formazione e le
competenze, essere un professionista sanitario non significa saper essere un caregiver; vi racconto ora uno
dei momenti significativi di questo apprendimento esperienziale.
Quella sera mi sono recata a casa del nonno Enrico per sostituirgli il catetere vescicale. In casa c’erano
anche la zia Elisa e suo figlio Aldo perché era il loro “turno” per mobilizzarlo al letto e sistemarlo per la
notte.
Sono rimasta piacevolmente colpita dalla scena che ho visto. Mi spiego. Mio cugino Aldo ha 32 anni, è un
commercialista, giovane adulto molto preciso, stile “giacca e cravatta”, vita in “casa-ufficio-palestra”, in giro
con l”ultimo modello di Audi” e schizzinoso in tutto (almeno così credevo fino ad allora); mia zia invece è
medico e mamma di tre figli giovani e adulti.
Ho sempre pensato che i cugini, in particolar modo Aldo, facessero il minimo indispensabile per il nonno,
lasciando la maggior parte dell’attività assistenziale alla zia. Invece quella sera ho visto invertire i ruoli: Aldo
è stato il principale caregiver, svolgendo la maggior parte delle attività assistenziali, e zia Elisa è stata di
supporto a lui, preoccupandosi da medico di osservare nonno con occhio clinico. Aldo ha quindi mobilizzato
il nonno dalla poltrona la letto utilizzando il sollevatore da primo operatore, ha cambiato il pannolone ed
eseguito l’igiene della zona perineale per scarica di feci, dopodiché ha lasciato che io e la zia eseguissimo la
procedura di sostituzione del catetere vescicale allontandosi un poco. Al termine della procedura si è
ravvicinato al letto, ha chiuso il pannolone, ha abbottonato il pigiama, lo ha mobilizzato verso la testata del
letto e poi in posizione semi-seduta perché respirasse meglio e infine rimboccato le coperte.

Ha fatto tutto in modo molto preciso e, ciò che mi ha stupito è che ha agito senza mai mostrare un segno di
disprezzo e senza lamenti verso ciò che stava facendo. Si è preso cura del nonno mantenendo integra, anzi
elevando la sua dignità perché in quell’occasione Aldo si è spogliato della maschera sociale dell’essere
perfetto-pulito-in ordine e si è fatto uomo che si prende cura ovvero caregiver, “sporcandosi le mani” per
rispondere al bisogno assistenziale del nonno.
Io osservavo il suo agire, ferma e in silenzio benchè professionista, perché qualsiasi azione o parola sarebbe
stato di troppo . Guardando e riflettendo su quella scena mi sono chiesta: “Che cosa è scattato in Aldo?
Cosa lo spinge ad agire così bene (in senso propriamente clinico-assistenziale ed etico)? Sarà la
riconoscenza che prova nei confronti del nonno? da dove deriva il saper essere caregiver in lui, che di teoria
ed etica assistenziale ne sa così poco?”
I ruoli in famiglia non vanno mai dati per scontati, non dipendono dal lavoro e dalla formazione ricevuta. In
famiglia si muovono dinamiche uniche che non rispettano le regole sociali e i luoghi comuni, e si scoprono i
valori profondi dell’uomo che sa prendersi cura.

Quella volta un caregiver mi ha insegnato…