Andai alla prima visita dallo specialista nell’ agosto 2003. Solo io in realtà percepivo,
inconsciamente, l’importanza e l’urgenza, di quel controllo, mia madre e il mio medico di famiglia
mi avevano sconsigliato di andare in agosto, “meglio dopo l’estate, senza abbronzatura”, “Ma io
non mi abbronzo mai e poi a settembre ricomincia la scuola e l’ultimo anno di liceo sarà davvero
impegnativo” pensavo.
Entrammo io e mia madre, che aveva appena iniziato a spiegare il motivo della visita, quando Il
dottore la zittì:” lasci parlare sua figlia, è lei la paziente”. Ricordo bene che mia mamma stizzita gli
rispose “Beh se vuole posso anche uscire”. E così fece.
Rimasti soli io, il dottore e l’infermiera tentai di spiegare che “questo neo qui, della coscia destra,
sta cambiando, è più grande e ne sta crescendo uno più piccolo e scuro accanto”, “In quanto tempo
è cambiato?” “Mah io lo tengo d’occhio da qualche settimana”, sorrise e guardò l’infermiera, “Sono
molto sicura di quel che dico dottore”, non mi prese sul serio, “Ok, spogliati che tanto dobbiamo
vederli tutti”. Aveva fretta, la sala d’attesa era piena.
Rimasi in biancheria intima, lui si avvicinò a me e senza scambiare neanche una parola esaminò
nevo dopo nevo tutto il mio corpo. Ho un pessimo ricordo delle sue mani indelicate che con
superficialità e rapidità spostavano, tiravano, abbassavano i miei arti, i miei capelli e gli indumenti
intimi, per esplorare ogni centimetro di cute. “Ti puoi rivestire”.
Fece rientrare mia madre e rivolgendosi solo a lei le disse che secondo lui non c’era nessun nevo
sospetto, “controllo a un anno, protezione solare 50+, arrivederci”.
Uscii dal poliambulatorio dell’ausl disgustata, insoddisfatta e irritata dall’atteggiamento di
quell’uomo.
Stava per ricominciare la scuola, io ero serena, carica e piena di entusiasmo, ma quel neo,
continuava a non piacermi. Ne riparlai ai miei genitori, anche loro in quelle settimane ci prestarono
attenzione ed in effetti “quello piccolino lì accanto prima non era così evidente”, chiesi di
consultare un altro dermatologo e non dovetti insistere più di tanto perché anche mia madre non
era rimasta affatto soddisfatta del medico del distretto.
Ottenemmo da un nostro parente il numero di telefono di un dermatologo in pensione, uno “di
fama”, “di esperienza”, “una persona deliziosa” dicevano. Prendemmo un appuntamento e dopo un
paio di giorni lo andammo a trovare nella sua villa a mare.
Mi visitò, le sue mani erano rugose, competenti e delicate e i suoi gesti accorti e rispettosi. Quanto
detto sulle sue qualità umane corrispondevano al vero, una persona a modo, cortese, seppe
mettermi a mio agio. Mi lasciò spiegare le mie perplessità, mi ascoltò ed esaminò bene quel nevo.
Alla fine concluse che non aveva delle caratteristiche anomale, che fino all’età adulta i nevi possono
crescere, in numero e dimensioni, tuttavia, in considerazione di quanto da me riferito propose un
controllo a sei mesi e mi suggerì di fare delle foto dei nevi in modo da avere un riscontro oggettivo
delle eventuali modifiche.
Tornammo a casa sollevati, quella visita e quel medico erano stati convincenti ed esaustivi.
Passarono dei mesi e per quanto fossi, sotto tutti gli aspetti, una ragazza serena e conducessi una
vita “normale”, quel nevo mi dava sempre da pensare, mi stavo convincendo che forse quei
cambiamenti che notavo esistevano solo nella mia mente, erano frutto della mia immaginazione.
Non mi rendevo conto neanch’io del perché mi fossi fissata sul quel nevo. Lo guardavo allo
specchio dopo la doccia, al mattino quando mi vestivo per andare a scuola, la sera prima di
indossare il pigiama.
A gennaio tornai a chiedere ai miei genitori di anticipare il controllo. Insistetti molto, non lo
ritenevano necessario, ma pur di non vedermi in ansia, tornammo dal nostro medico di famiglia,
gli spiegammo tutto e gli chiedemmo il suo parere.

Ricordo che il mio medico mi prese sul serio, perché non avrebbe dovuto? conosceva me e la mia
famiglia, non ero una ragazzina ipocondriaca, non avevo problemi di relazione con familiari o
amici, andavo bene a scuola, non ricercavo attenzioni “ok chiediamo un altro parere, ti segnalo una
dermatologa di mia fiducia, se però anche lei dovesse dire che non c’è da preoccuparsi, ci
fermiamo, sei d’accordo?” Annuii.
Andammo da questa dermatologa e l’impressione iniziale, a dire la verità non fu delle migliori. Mi
sembrava un po’ troppo “accelerata”, parlava velocemente ed in maniera tutt’altro che formale. Mi
visitò in presenza di mia madre, ma ascoltò me e quanto avevo da dirle. Le portammo i referti delle
visite precedenti, ma lei non li volle neanche guardare.
Ricordo le sue mani piccine e liscissime, curate e lentigginose. Ma soprattutto ricordo le sue parole
“Togliamolo e lo analizziamo, non mi piace è asimmetrico, i bordi sono frastagliati, poi tu mi dici
che ti sembra cambiato…togliamolo! inutile perderci tempo, così ci mettiamo anche il cuore in
pace”. Ci dà le indicazioni per prenotare l’intervento e ci saluta.
Era la fine di febbraio del 2004 quando mia madre mi consegnò il referto dell’esame istologico, in
una busta chiusa, dicendomi che era appena arrivato tramite posta, io la aprii. Non ero affatto in
ansia, anzi, l’aspettavo, ero più curiosa che preoccupata.
Leggevo lentamente, ma non capivo…mi sembrava mancasse qualcosa “MATERIALE INVIATO:
losanga cutanea…neoformazione pigmentata…margini, dimensioni, spessore…ecc…”
Fine.
Non ero un medico allora e non ero sicura che lo sarei diventata, anche se lo desideravo già da anni,
ma qualcosa di quel documento non mi convinceva… avevo l’impressione che non ci fosse una vera
e propria “diagnosi”.
Guardai mia madre e dissi: “E allora? tu cosa hai capito?” “Nulla, lunedì chiediamo alla
dermatologa”, abbozzò un sorriso, ma la vedevo tesa, impacciata, quasi disinteressata a quel “pezzo
di carta”.
Fingeva, ne ero certa, non era da lei quell’atteggiamento. Corsi nella mia stanza a cercare nella
nostra enciclopedia medica il significato di alcune parole.
Arrivò quel lunedì e come programmato io e mia madre andammo dalla dermatologa. Ricordo che
ero infastidita per aver perso quel giorno di scuola, avevo il compito in classe di letteratura inglese
e avevo ripassato per giorni il Modernismo, Joyce, il “flusso di coscienza”, Virginia Woolf.
Una volta entrate in ambulatorio la dermatologa ci fece accomodare e sbrigativamente mi passò un
foglio e mi disse di leggerlo. Assomigliava al referto che mi aveva mostrato mia madre due sere
prima. Ma questo recitava così:
“Melanoma a diffusione superficiale, surnevico, in fase di crescita verticale, III livello di Clark,
spessore di Breslow 1,2 mm, indice mitotico 2 secondo Mc Govern, ecc ecc….”
Mi girai verso mia madre, aveva gli occhi lucidi e il viso spento, pallido…mi disse, con la voce
tremolante: “Doni, il referto che hai tra le mani è l’originale… quello dell’altra sera l’ho scritto io a
computer, scusami”.
Tornai a guardare il foglio, pesante come un macigno, ero disorientata.
Tralasciando tutte le altre parole, indubbiamente fu la prima ad attirare la mia attenzione:
Melanoma.
La dottoressa disse “Dall’esame istologico è risultato che su quel neo, che mi hai segnalato tu, stava
crescendo un melanoma, sai di cosa si tratta?”
Sì certo che sapevo cos’era, in estate ne parlavano tutte le rubriche di medicina dei TG.
Iniziò comunque a darmi spiegazioni a dirmi che avrei dovuto fare ulteriori accertamenti, ma che
aveva pensato lei stessa a programmarli, ma che la cosa più importante da fare, però, era operarmi

nuovamente, il più presto possibile, per “allargare” il campo… non capii il significato di quelle
parole, non quel giorno almeno.
Da quel momento in poi parlò solo con mia madre, io smisi di ascoltarle. Ricordo che l’unica
domanda che feci fu “Dovrò fare della chemio?”. Temevo per i miei bei capelli, ovviamente, avevo
17 anni…erano una delle poche parti del mio corpo che adoravo. Mi rispose che molto
probabilmente l’intervento sarebbe stata l’unica terapia necessaria e sufficiente a combattere la
malattia.
Uscii dall’ambulatorio, frastornata, ma per certi versi rincuorata.
“Melanoma, d’accordo è un tumore, non c’è da scherzare, ma ho 17 anni, mica si muore a 17 anni?!
devono operarmi di nuovo è vero, ma non dovrò fare altre terapie…l’importante è che non mi
lascino una cicatrice brutta, non voglio che poi si veda con le gonne”.
Ma la cosa per me più grave in quel momento era che “mamma non doveva permettersi di fare quel
giochetto con me! Camuffarmi la realtà! pensava che fossi così stupida da non accorgermi che era
un falso? Pensava che avrebbe potuto nascondermi la realtà? Non sono una bambina!”
Le altre mani che ricordo molto bene sono quelle grandi, anzi enormi, affusolate e abili di Omar,
chirurgo francese, di origini egiziane, che mi ha operato all’ Istituto oncologico Gustave Roussy di
Villejuif – Parigi, il 22 marzo del 2004.
Se è vero che il “toccare” un paziente è già di per sé un atto terapeutico, nel momento in cui Omar
mi strinse le mani sorridendo, percepii che mi avrebbe salvato.
Era un uomo altissimo e snello, giovane ed elegante, dai folti capelli nero corvino. Mi mise
perfettamente a mio agio dal primo “Bonjour mademoiselle ”.
Mi fece per un attimo dimenticare l’immagine che avevo visto pochi minuti prima e che ancora
oggi, quando meno me lo aspetto mi torna prepotentemente in mente…bambini, tanti bambini di
tutte le età, in una stanza in comune con la TV accesa e tantissimi giochi, libri e poster colorati
appesi a pareti ancora più colorate che facevano risaltare molto il pallore dei loro visi. Provenivano
da tantissime nazionalità diverse, eppure avevano tutti “la stessa faccia”, una faccia molto diversa
dalla mia… “cosa ci facevo io là?”
Omar mi assicurò che sarebbe andato tutto bene, mi fece un’infusione di coraggio, che purtroppo
non riuscii a trasmettere ai miei, che per quanto si sforzassero di sorridere avevano il terrore negli
occhi.
Ci tenni a dirgli poco prima dell’operazione, in un francese stentato, che avrei voluto vedere tutto
dell’intervento, avrei voluto che mi spiegasse i vari passaggi, anche in francese, avrei capito. E così
fece, mi parlò tutto il tempo, mi chiese dei miei progetti, del mio sogno di iscrivermi a medicina,
abbiamo riso dei suoi tentativi di imparare qualche parola in italiano, della sua passione per la
pizza, mi assicurò che la ferita col tempo si sarebbe vista appena, perché avrebbe fatto una sutura
da chirurgo plastico. Uscii dalla sala operatoria con il sorriso.
Qualche anno dopo lessi un articolo su un giornale on line della mia Regione che diceva così:
“Guardandolo dall’alto l’ospedale Gustave Roussy di Parigi sembra una lunga, imponente, mano.
C’è un grosso corpo centrale, il palmo, e cinque edifici minori intorno, le dita. In milioni si sono
aggrappati a quella mano. Tanti l’hanno tenuta stretta e si sono salvati. Tanti altri non hanno avuto
la stessa forza, o fortuna, e sono scivolati via.”

Le mani che ricordo molto bene