Questa storia inizia nel 1961, con una caduta sugli sci. L’alpinista italiano Carlo Mauri, il “Ragno”, mentre si trovava a Courmayeur con l’amico Walter Bonatti per un addestramento in previsione di una spedizione in Alaska, cade su un pendio e si rompe tibia e perone. L’iniziale prognosi di due mesi si allunga sempre più, la frattura non guarisce, la gamba progressivamente si incurva e il piede si atteggia in equinismo. Dopo quattro anni di interventi e fisioterapie e dopo essere sopravvissuto a un infarto, la frattura finalmente si rinsalda, ma l’arto risulta definitivamente deformato. Carlo Mauri non si rassegna però ad abbandonare la sua passione, anche se le mete cambiano: non più vette, per lui ora meno accessibili, ma le esplorazioni dei territori lontani. Con uno stivale rigido, due bastoncini e molta forza di volontà ecco che raggiunge il Polo Nord, percorre la via della Seta, avanza con gli aborigeni nel deserto australiano. Fino a che, durante la preparazione di un’ennesima impresa, conosce il medico russo Alexandrovic Senkevich, il quale riuscirà infine a convincerlo a farsi visitare da un suo amico e collega, il dottor Gavrijl Abramovich Elizarov (conosciuto come Ilizarov in seguito a un errore di trascrizione dell’ufficiale dell’anagrafe). Il dottor Ilizarov all’epoca era già famoso in Russia per le sue ricerche sull’accrescimento osseo e aveva brevettato, già nel 1952, un nuovo modello di fissatore esterno, che rendeva possibile la precoce mobilizzazione dell’arto fratturato, la riduzione dei tempi di ossificazione e la possibilità di correggere molte deformazioni ossee. Carlo Mauri si fa operare da Ilizarov nel 1980: tre mesi torna a casa, camminando in modo normale, e quasi subito partirà per una traversata delle Alpi. Negli ultimi anni di vita (morirà per cause cardiache nel 1982) Carlo Mauri si impegna a far conoscere il metodo di Ilizarov al di fuori dei confini della Russia. Il primo invito che Ilizarov riceve dall’altro lato della Cortina di Ferro è per un convegno a Lecco nel 1982: la sua fama di “Michelangelo dell’ortopedia” si diffonde ben presto tra i Paesi del Blocco occidentale, e in pochi anni parteciperà a molti congressi in Europa e in America. Nel 1988, anno della mia nascita, il metodo di Ilizarov in Italia era abbastanza conosciuto, almeno nella teoria, dagli specialisti ortopedici, fra cui aveva detrattori e sostenitori (questi ultimi principalmente fra i medici più giovani). Il mio coinvolgimento in questa storia non deriva da qualche avventurosa esplorazione o da un’impresa estrema, ma probabilmente da un’otite virale che ha colpito mia madre durante la gravidanza. Quello che si sa di sicuro, è che sono nato l’8 febbraio del 1988 e che i medici sono stati molto impegnati nei miei primi giorni di vita a dare una descrizione completa delle malformazioni della mia gamba destra, che comprendevano un’ipoplasia del perone, una malformazione complessa in equinismo del piede con sindattilia, un incurvamento di tibia e femore con ginocchio in varo e un’ipoplasia delle cartilagini di accrescimento metafisarie, che avrebbe causato nel tempo un accorciamento relativo dell’arto rispetto al controlaterale. Anche i miei genitori erano molto impegnati, più che altro a cercare di capire che tipo di problema avessi e a badare al mio fratellone grande, che all’epoca aveva quattro anni. Mia madre, che come insegnante di chimica aveva meno soggezione dei medici rispetto a mio padre, la immagino a litigare coi camici bianchi che nei primi giorni di vita mi tenevano in ostaggio fra visite ed esami. Mio padre, impiegato di banca figlio di contadini, me lo immagino in silenzio, ad ascoltare, a tranquillizzare mia madre, da un lato fidandosi del parere dei medici quasi come della Bibbia, dall’altro gestendo la paura fra sé e sé per non preoccupare il resto della famiglia. Nel corso del mio primo anno di vita, i miei genitori sono stati naturalmente molto impegnati nella consultazione degli specialisti. Una cosa era chiara: avrei avuto bisogno, oltre alla correzione delle malformazioni, anche di vari interventi di allungamento osseo ripetuti nelle varie fasi della crescita. Scartarono un chirurgo spagnolo che mi avrebbe montato un fissatore esterno con qualche chilo di metallo a 12 mesi di vita, scartarono anche i medici del Rizzoli che mi avrebbero fatto trascorrere in ospedale tutti i mesi necessari per l’allungamento osseo. La scelta cadde su un chirurgo quarantenne dell’Ospedale Maggiore di Bologna, aiuto di un grande nome dell’ortopedia italiana. Il suo nome era stato fatto ai miei genitori da un’amica, medico di medicina generale, che lo aveva conosciuto attraverso un suo paziente. Il Dottor Piergiorgio Vasina sarebbe diventato “il mio ortopedico” fino alla mia giovinezza e alla sua pensione, e a lui devo il primo embrionale desiderio di fare “da grande” il medico. Il Dottor Vasina propose ai miei genitori un primo iter di allungamento a tre anni di età (per non interferire con lo sviluppo psicomotorio dei primi 36 mesi) e altri due distribuiti a metà e alla fine dell’accrescimento. Avrebbe utilizzato il metodo di Ilizarov: un fissatore esterno fatto di fili metallici trapassanti l’arto e collegati fra loro da un esoscheletro metallico. Dopo aver praticato una o più osteotomie chirurgiche, sarebbe stato necessario nel corso di alcune settimane o mesi agire sull’esoscheletro mediante chiavi inglesi e bulloni per distanziare fra loro i monconi ossei permettendo l’accrescimento osseo e la correzione delle deformità angolari. Terminata la fase di allungamento, che doveva essere condotta con l’arto in scarico, sarebbe stato necessario attendere un tempo doppio rispetto al tempo di allungamento per permettere all’osso di calcificare, con l’aiuto di un carico graduale. Dopodiché, sarebbe stato rimosso il fissatore e sarebbe iniziato un periodo di gessi seguito da fisioterapia. 

Ignaro di tutto questo, trascorro i miei primi anni di vita percorrendo tutte le tappe dei miei coetanei, senza essere influenzato dal mio problema. Approfitterei di questi mesi di tranquillità per fare a posteriori qualche riflessione. Primo: avevo un problema oppure ero malato? Per tutta la mia infanzia e per gran parte della mia adolescenza non ho mai guardato a me stesso come a un malato. Sapevo di essere diverso, e questo la maggior parte delle volte mi rendeva orgoglioso, mi faceva sentire speciale. Avevo vissuto cose che nessuno fra i miei amici conosceva, avevo storie fantastiche da raccontare. Mi sentivo più grande dei miei coetanei, ero lodato dagli adulti per la mia maturità. C’erano naturalmente momenti di enorme sofferenza e terrore (come le medicazioni bisettimanali o la terribile rimozione dei ferri), ma da bambino questi momenti venivano presto dimenticati, grazie alla vicinanza della famiglia e degli amici. Tantissime erano le cose che potevo fare, anche se da una certa età in poi non ho più potuto correre o saltare, anche se alcuni anni della mia infanzia li ho passati in carrozzina. A quelle cose mi dedicavo con passione: la lettura, la musica, la scuola, gli amici. Ero sempre in cerca di stimoli. Molti si meravigliavano di vedermi sorridere mentre avevo qualche chilo di ferraglia conficcato nella carne. Io mi meravigliavo della loro meraviglia: quello che per loro era malattia, sofferenza, infelicità, per me era la normalità, con le sue gioie e i suoi dolori. Ero più fortunato di loro, perché conoscendo la sofferenza mi bastava davvero poco per essere felice, riuscendo senza sforzo a relativizzare tanti problemi. Certo, ricordo bene alcune note stonate della mia infanzia. A volte ero colpito dalla cattiveria dei bambini, che mi isolavano perché non potevo partecipare ai loro giochi e con semplice crudeltà mi dicevano che ero strano e quindi “dovevo” rimanere da solo. Reagivo a queste provocazioni rafforzando il mio orgoglio e il mio senso di superiorità, rifiutando sempre di più l’idea di essere malato. Nella mia mente, essere malato voleva dire essere lasciato solo dagli amici, essere “meno” degli altri. Io invece mi sentivo “più”, volevo essere “più”. Questo mi porta alla seconda riflessione: la mia identità era legata in modo indissolubile al mio problema. Sentivo di essere come ero a causa della mia gamba. Senza quella, chi sarei stato? Senza la mia storia di interventi, di lotte quotidiane per l’autonomia, di passatempi insoliti per i miei coetanei, di sofferenze che mi avevano aperto domande profonde, io sarei stato uno come gli altri: una persona qualunque, e per ciò stesso insignificante ai miei occhi. Godevo dell’attenzione degli adulti, dei medici che portavano il mio caso ai convegni, degli amici che mi consideravano “un saggio”: tutto grazie al mio problema. C’erano le premesse per la mia crisi futura: io stavo attraversando un lungo e difficile percorso di cure mediche per potere, alla fine, “avere una gamba destra il più possibile come gli altri”, ma nello stesso tempo non avrei mai voluto essere come gli altri. Dovevo quindi desiderare di non essere curato? Terzo: ho scelto di iniziare questa storia partendo dal 1961, ventisette anni prima della mia nascita. Il contesto è importante. La sofferenza nel mio caso ha portato a precoci domande “filosofiche” sul senso della mia vita. La storia che mi ha preceduto mi ha aiutato, non a dare una risposta precisa, ma a percepire l’esistenza di un senso. Pensate quante “coincidenze” sono accadute perché il metodo di Ilizarov fosse noto in Italia nel momento della mia nascita. Sono davvero coincidenze? Oppure, come diceva Einstein, il caso non è altro che la via che Dio usa quando vuole restare anonimo? Tornerò su questo più avanti, nel parlare dell’importanza che ha avuto la fede nel mio percorso.

A tre anni mi operarono all’Ospedale Maggiore di Bologna: il reparto era all’ultimo piano, ricordo bene il corridoio. Mi impiantarono il primo apparato di Ilizarov: tra allungamento, consolidamento osseo e gessi sarei tornato a camminare normalmente (meglio di prima, in effetti!) circa un anno dopo, anno durante il quale avrei subito altri due (o tre?) interventi non preventivati, volti ad aggiungere fili metallici al fissatore per migliorarne la tenuta sull’osso. Gli obiettivi di questa prima fase di trattamento erano di correggere, almeno in parte, l’atteggiamento equino-varo del piede e di allungare la tibia, che alla rimozione del fissatore avrà guadagnato 9 centimetri. Ho solo ricordi frammentari di quel periodo, di cui la maggior parte sereni. I miei genitori raccontano che dopo i primi giorni dall’intervento già camminavo attaccandomi alla testata del lettone matrimoniale. Mio nonno mi aveva costruito un carretto di legno su cui appoggiavo la gamba destra col fissatore e, spingendomi con la sinistra, facevo le gare di velocità sul largo terrazzo di casa, rischiando chissà quante volte di rovesciarmi a terra o di sbattere contro muri e ringhiere. Andavo regolarmente all’asilo, con l’aiuto di questo carrettino, e credo di ricordare almeno una volta di essermi rovesciato contro un muro, spinto da un mio compagno. Tanta paura, ma nessuna conseguenza. I ricordi negativi sono legati a tre generi di esperienze. Anzitutto, i ricoveri in ospedale. Ringrazio i miei genitori e il mio ortopedico per aver cercato per me la soluzione che prevedesse il minor tempo di permanenza in ospedale, luogo che ho sempre detestato. Odiavo prima di tutto il suo odore: quella puzza di disinfettante che mi assaliva fin dall’ingresso. Devo dire che nel corso degli anni questo aspetto mi ha dato sempre meno fastidio, non so se per affievolimento del mio olfatto o per cambiamento dei disinfettanti impiegati. Odiavo naturalmente le punture e in particolare il posizionamento degli accessi venosi. Fin verso i sedici anni credo che gli infermieri dell’ortopedia non siano mai riusciti a prendermi la vena al primo tentativo, ben che andasse ci riuscivano al secondo. Ma più spesso dovevano arrendersi e chiamare un infermiere della pediatria oppure l’anestesista. Né io né i miei genitori siamo mai riusciti ad abbreviare quello che per me bambino era il calvario della ricerca delle vene. Naturalmente raccontavamo subito le esperienze precedenti, ma non è mai stato possibile scavalcare l’infermiere e far venire subito l’anestesista o qualcuno dalla pediatria. Odiavo la noia della degenza, la necessità di stare fermo sul letto, mentre il tempo non passava mai. Ma più di tutto, mi terrorizzava l’ingresso in sala operatoria: l’ascensore in cui spingevano il mio letto, la porta davanti alla quale i miei genitori dovevano fermarsi. Io proprio non capivo perché non potessero restare con me fino all’induzione dell’anestesia sul lettino operatorio. La sala operatoria, poi, era come un’astronave aliena: odori, colori, suoni strani e incomprensibili, spesso spaventosi, tante persone intente a fare le loro cose, ignorandomi, a parte una o due di loro che mi parlavano per rassicurarmi. Mi facevano paura soprattutto queste persone sconosciute e temevo quello che avrebbero potuto farmi: appena entravo, chiedevo se c’era il mio ortopedico, spesso l’unico volto noto, che però stentavo a riconoscere, nascosto dietro la cuffia e la mascherina. Ho un ricordo particolare di uno degli interventi che ho subito fra i tre e i quattro anni: ero sul lettino operatorio e qualcuno voleva posizionarmi un accesso venoso, ma io mi divincolavo e mi rifiutavo. Qualcuno, credo il mio ortopedico, mi spiegava che dopo non avrei più sentito niente, ma non mi aveva convinto. Allora mi hanno detto che mi avrebbero messo una mascherina per addormentarmi, ma l’odore del gas mi dava la nausea e divincolandomi sono riuscito a liberarmi anche da quella. Il mio ortopedico allora mi disse chiaro e tondo: o la puntura o la mascherina. E’ stato un po’ come se a un condannato avessero fatto scegliere fra il cappio e la fucilazione. La seconda esperienza negativa che ricordo di quel periodo erano le visite di controllo in cui l’ortopedico rimuoveva dei fili metallici dal fissatore. Questa operazione si rendeva necessaria durante la fase di consolidamento osseo per aumentare il carico e favorire l’ossificazione. L’operazione non richiedeva anestesia: con una pinza si tranciano i due capi del filo, liberandolo dall’esoscheletro metallico esterno, quindi, tirando con forza un capo del filo stesso, lo si sfila dall’arto. Il tutto richiedeva circa un minuto per filo, forse anche meno, ma il terrore e l’ansia di quei momenti era indescrivibile. Non tanto per il male, credo, ma per l’impressione esercitata sulla mia immaginazione dalle vibrazioni che percepivo all’interno della gamba quando il filo veniva tranciato e dalla sensazione che provavo nel momento in cui questo veniva sfilato. L’angoscia legata a questa esperienza non è mai cambiata nel tempo: a diciassette anni era come a tre. L’unica cosa che è cambiata è che crescendo esprimevo di meno l’angoscia, ma dentro la sentivo allo stesso modo. La terza esperienza che non riuscivo ad accettare era la riabilitazione. Il problema non era la fisioterapia: dopo gli interventi, l’ospedale, il fissatore e i gessi le palestre per me erano luoghi di pace e serenità, le fisioterapiste erano tutte molto gentili e mi hanno sempre messo a mio agio. Il problema erano gli esercizi che dovevo fare a casa, e su cui mio padre vigilava con molto scrupolo. Ero molto indisciplinato, non volevo “perdere tempo” a fare esercizi noiosi e invidiavo i miei amici e compagni che non dovevano sottoporsi a quelle torture. A parte queste esperienze, che ho vissuto col pathos drammatico di un bambino, l’anno del mio primo Ilizarov è trascorso senza interferenze significative sulla mia vita: intendo la vita “normale”, quella fatta di famiglia, asilo, aria aperta, amici, curiosità e scoperte di un bambino di tre o quattro anni. E per questo devo dire che, al di là del successo del trattamento, la sfida era stata vinta: tutti, dai miei genitori e mio fratello in primis, ai parenti che li aiutavano, al mio ortopedico, alle maestre dell’asilo, tutti mi hanno aiutato ad accorgermi il meno possibile di avere quel problema. A quattro anni e qualche mese ero di nuovo libero dalla ferraglia dell’Ilizarov, e potevo camminare con una scarpa più leggera, correre e saltare, imparare ad andare in bicicletta, fare tutto quello che facevano i miei coetanei.

Dai quattro ai nove anni ho potuto di nuovo quasi dimenticarmi del problema. O meglio, potevo raccontarlo come si racconta una storia fantastica e unica di cui uno va fiero. Non avevo limitazioni nel movimento, non mi preoccupavano le cicatrici sulla gamba, anzi ero contento quando un mio compagno mi chiedeva spiegazioni, perché raccontare la mia esperienza era bello, sentivo che mi faceva bene, e quasi sempre suscitavo negli altri interesse, se non ammirazione. Una o due volte all’anno andavo a trovare il mio ortopedico a Ravenna, dove aveva il suo domicilio e il suo ambulatorio, e una volta l’anno andavo a Bologna per farmi realizzare le scarpe su misura dai tecnici ortopedici. Quest’ultima era una gran seccatura, perché mi faceva perdere ore di scuola (dove mi trovavo molto bene) o di tempo libero. Mi lamentavo spesso con mio padre, che mi accompagnava ogni volta: finiva spesso per arrabbiarsi, e mi faceva passare in rassegna tutti i motivi per cui, nella mia situazione, potevo considerarmi fortunato.

Il 18 luglio del 1997 mi hanno impiantato il secondo apparato di Ilizarov. E’ l’unico intervento di cui ricordo con certezza la data, e per una buona ragione. Era l’estate fra la quarta e la quinta elementare, la mia gamba sarebbe stata di nuovo “libera” il 7 (o forse il 9) dicembre dell’anno successivo. In questo intero lasso di tempo, avrei subito cinque interventi chirurgici, di cui due non programmati, resi necessari dalla rimozione troppo precoce di alcuni fili. L’apparato di Ilizarov che mi montarono il 18 luglio durante un intervento durato 6 ore si estendeva sia sul femore, sia sulla tibia, dove mi furono praticate 2 osteotomie: dal grande trocantere ai metatarsi la mia gamba era completamente avvolta da anelle, barre metalliche e bulloni, a cui era fissata da una ventina di fili di Kirschner trapassanti e da tre fiches del diametro di mezzo centimetro l’una a livello del trocantere. Il ginocchio era immobilizzato. L’esito di questa fase di trattamento fu insieme positivo e negativo per la mia vita: l’arto, che all’epoca era notevolmente più corto rispetto al sinistro, fu allungato complessivamente di almeno 25 centimetri, il piede e il ginocchio furono allineati in un unico asse con l’anca, l’equinismo del piede venne ulteriormente corretto, così come l’incurvamento del femore. Tuttavia, lo stiramento dei tessuti, le aderenze e la prolungata immobilità esitarono in una riduzione notevolissima dell’articolarità del ginocchio: nonostante qualche miglioramento successivo grazie alla fisioterapia, non sarei più riuscito a correre né a saltare. Ho spesso considerato il 18 luglio come un giorno di svolta per la mia vita. Il mio ortopedico aveva abbandonato da poco il lavoro all’ospedale Maggiore, ed era in attesa di entrare in servizio come primario del reparto di ortopedia dell’ospedale di Argenta, nel ferrarese, così l’intervento venne eseguito in una clinica privata di Bologna. L’assicurazione di mio padre coprì abbondantemente le spese sanitarie legate a questo e a successivi interventi: qualche anno dopo non ci sarebbe più stata questa sicurezza economica, perché la polizza assicurativa sarebbe diventata molto più restrittiva. Entrai nella clinica con un senso di aspettativa palpabile, quasi sacra. La camera mi piaceva, era accogliente, non c’era il caos dell’ospedale. Ma dopo l’intervento non avrei più fatto caso a queste cose. Passai la prima notte vomitando. Non riuscivo ad alzarmi seduto, perciò mia madre mi cambiava le traverse a lato del cuscino dopo ogni conato di vomito. Venne fuori la mattina dopo che ero intollerante al contramal, il farmaco fu cambiato e il vomito cessò. Per tutto il giorno seguente non osavo né muovere la gamba, né guardarla: era coperta da strati di garze e traversine. Il giorno seguente dovevo fare la cacca, scoglio inesorabile da affrontare prima di pensare alla dimissione. Lo spettro del clistere era qualcosa che non riuscivo a contemplare, così come l’eventualità del catetere vescicale, che per fortuna riuscii sempre ad evitare. Così, ingurgitai un gran numero di prugne secche e quindi affrontai le infermiere con la padella. Ricordo di aver provato un dolore atroce: mentre mi sollevavo e spingevo, sentivo i muscoli della gamba attraversati dai ferri contrarsi in scosse involontarie che mi provocavano molta sofferenza. In qualche modo, urlando, riuscii comunque a dare soddisfazione alle infermiere. Il giorno dopo, fu il momento di passare dal letto alla carrozzina. Pensare di sollevare la gamba, fissata a molti chili di metallo, mi sembrava qualcosa di improponibile, ma scoprii che afferrando con le mani le anelle di metallo e tirando riuscivo a sollevare passivamente l’arto in modo indolore. Quando fui in qualche modo depositato sulla carrozzina, mi sentii rinascere. Spingermi con le braccia lungo i corridoi della clinica mi piaceva, e mi piaceva soprattutto poter uscire da quella camera. Tre giorni dopo l’intervento fui dimesso e mi riunii a mio fratello nella casa che avevamo affittato sull’Appennino modenese. Ricordo di aver passato il viaggio in automobile seduto di traverso sui sedili posteriori ridendo come un matto mentre mio padre faceva il buffone (cosa che quando voleva gli riusciva splendidamente). Pioveva a dirotto quando arrivammo in montagna, e ricordo che il nostro vicino ci aprì il suo garage per permettermi di fare il passaggio auto-carrozzina all’asciutto. Non ho molti ricordi di quell’agosto in montagna. I miei genitori avevano predisposto per ospitare alcuni miei amici nella nostra casa, in modo da farmi avere della compagnia, cosa che apprezzai molto. Mio padre mi aveva costruito un cavalletto per dipingere, un tavolo di legno alto abbastanza per potermi infilare sotto con la carrozzina e fare i compiti o suonare la pianola. Per fare i compiti avevo anche un tavolino che si incastrava sui braccioli della carrozzina, e all’occorrenza si trasformava in leggio. Su di esso consumavo anche i pasti, perché la sedia a rotelle non mi permetteva di stare a tavola con gli altri. Il tempo passava abbastanza bene, grazie agli amici, che date le circostanze devo riconoscere a posteriori che sono stati davvero meravigliosi, e alla mia famiglia che si dava molto da fare. Leggevo, giocavo, guardavo film, facevo i compiti ed ero portato in giro per quanto possibile. Una volta tentammo di andare alle cascate del Dardagna, ma il percorso a piedi, per quanto agevole, non era asfaltato: la carrozzina poteva percorrerlo, ma le vibrazioni del terreno mi davano troppo fastidio alla gamba, così a un certo punto dovemmo tornare indietro. Avevamo quasi sempre gente in casa. Ospitammo anche il nostro specialissimo amico-prete di Pavia, don Giovanni, che ebbe un ruolo fondamentale nell’aiutarmi a dare un senso a quello che mi stava succedendo. Mentre era nostro ospite, celebrammo una messa in casa: ho ancora le foto della scrivania fatta da mio padre, trasformata in altare, e della croce realizzata sempre da mio padre tagliando e incrociando fra loro le chiavi inglesi che usavamo per girare le viti del mio fissatore. Credo di poter dire che se ho conosciuto qualcosa di Gesù è stato grazie a quella croce. Il clima in casa era sereno, nonostante le difficoltà dei primi mesi fossero tante. Per svariate settimane ho avuto dolore a sdraiarmi nel letto, per cui dovevo dormire con molti cuscini e in posizioni decisamente sconvenienti per la mia schiena. Una volta a settimana, per i primi uno o due mesi, andavamo a Bologna per il controllo dall’ortopedico e per la medicazione delle ferite sul trocantere, dove mi avevano montato le viti più grosse: inutile dire che il dolore era tanto, non ho mai voluto guardare la ferita, dopo averla vista riflessa nello sguardo di mia madre. Ad ogni modo, quando la carne si chiuse intorno a quelle viti, non ci fu più bisogno di fare le medicazioni in ospedale, e io riuscii a guardarmi anche in quel punto. Per alcuni mesi, la gamba continuò a farmi impressione, era quasi come se non la sentissi mia. La toccavo spesso, un po’ per ricordarmi che era attaccata al resto del mio corpo, un po’ perché il tocco leggero mi dava sollievo dai fastidi e dai formicolii. Per i primi tre mesi, dalle quattro alle sei volte al giorno i miei genitori giravano le viti che distanziando i monconi di osso permettevano l’allungamento della gamba. Ben presto fui terrorizzato da quei momenti: non sono in grado di descrivere quello che sentivo, ma l’innaturalità di quello che vedevo, unito alle percezioni fisiche di stiramento e alle mie fantasie di ragazzino creavano un cocktail spaventoso. Col tempo, imparai a girare le viti io stesso, e quelle sensazioni sgradevoli si attenuarono: penso che ciò che più mi disturbava era il pensiero che la mia gamba fosse un pezzo di carne su cui altri, non più io, avevano il controllo ed esercitavano violenza. Nella misura in cui riuscivo a re-impadronirmi del mio corpo, il dolore e l’angoscia diventavano un pochino più gestibili. L’altro momento drammatico era quello delle medicazioni: per tutti i tredici mesi di fissatore esterno, due volte la settimana facevo la doccia e poi mi medicavo, con l’aiuto dei miei genitori. Le medicazioni richiedevano un’ora buona: tutti i fori di ingresso dei ferri (una quarantina) dovevano essere puliti con una garza, disinfettati e poi coperti da una goccia di antibiotico. Alcuni fori facevano più male di altri, ma andavano puliti a fondo, perché il rischio costante era quello di un’osteomielite. Fin dove arrivavo da solo, mi medicavo io, con la supervisione dei miei genitori, ma su tanti punti agivano loro, ed erano spesso quelli per cui mi lamentavo di più. Durante l’allungamento, le sensazioni cambiavano. Dopo qualche settimana, iniziai a perdere la sensibilità al piede, a causa dello stiramento dei nervi. I tessuti molli si tendevano, producendo un costante senso di tensione interna, che a volte provocava piccolissimi adattamenti dei ferri del fissatore con scatti e vibrazioni che mi si ripercuotevano all’interno della gamba. Le radiografie di controllo che feci in settembre portarono un nuovo elemento di preoccupazione: il tono calcico dell’arto era diffusamente ridotto, col rischio che il consolidamento del nuovo osso fosse rallentato e che la tenuta dei fili metallici fosse compromessa. Il mio ortopedico mi fece paura: dovevo assolutamente alzarmi in piedi e iniziare a caricare. Fino a quel momento ero stato troppo spaventato per farlo, e i miei genitori non se l’erano sentita di insistere più di tanto, ma ora non era più rimandabile. La prima volta che mi alzai in piedi fu atroce. Non credevo che sarei riuscito a tenere la gamba sollevata, doveva pesare almeno un quintale. Vedevo il piede gonfiarsi a vista d’occhio e diventare cianotico. In qualche maniera, a forza di insistere, l’arto si riabituò alla stazione eretta, e io mi riabituai al fatto di avere dei muscoli nella gamba destra. Pian piano, il dolore che avvertivo quando li contraevo iniziò a scemare per poi annullarsi del tutto. La fine di luglio e i mesi di agosto e settembre del 1997 furono senza dubbio i più duri di tutto il mio percorso di cura. Tornati a casa dalla montagna, in settembre, si presentò il problema di raggiungere l’appartamento, situato al primo piano senza ascensore. Poiché ancora non riuscivo a fare le scale, mio padre si ingegnò con una fascia di stoffa opportunamente annodata intorno al suo collo e intorno alla mia gamba che gli permetteva di prendermi in braccio e portarmi di peso su e giù dalle scale: sistema faticosissimo (anche se ovviamente non lo ammetteva) che si rese necessario per qualche mese, finché non riuscii piano piano a fare le scale. A settembre inoltre iniziavo la quinta elementare. Il tavolo di legno realizzato da mio padre divenne il banco che usavo in classe; l’inizio della scuola segnò anche per me la ripresa della normalità. Andare a scuola per me era fondamentale: avendo difficoltà a muovermi, era il momento più favorevole per stare in mezzo agli altri e per dimenticarmi del mio problema. Rappresentava la normalità, e un po’ mi dispiaceva perdere ore o giorni di scuola per ricoveri o visite di controllo. I miei compagni di classe – così come le insegnanti – sono stati eccezionali, non ricordo di essere stato emarginato o di avere avuto problemi da parte loro. Passavo l’intervallo con 2 o 3 di loro a giocare a carte sul mio banco, avevo persino inventato un gioco ibrido con le carte da briscola e le regole di UNO che per vari mesi andò molto in voga. In gennaio del 1998, dopo la rimozione di alcuni fili dell’apparecchio, si rese necessario un intervento di riposizionamento perché l’osso, non ancora sufficientemente consolidato, era stato deformato dall’azione dei muscoli e dei tendini stirati per effetto dell’allungamento. Di quell’intervento ricordo oggi un unico particolare: avevo da poco imparato a memoria “Il 5 maggio” del Manzoni e avevo molta paura che per effetto dell’anestesia mi sarei dimenticato qualche verso. Quando mi svegliai dall’anestesia una delle prime cose che feci fu ripeterla tutta a mia madre, scoprendo con sollievo che ancora la ricordavo. Al mio ritorno a scuola potei recitarla alla maestra di italiano e ai miei compagni: fu una bella soddisfazione. Una situazione analoga si verificò in giugno: la rimozione di alcuni fili a livello del femore si rivelò troppo precoce: l’osso si incurvò rendendo necessario un nuovo intervento. Quell’occasione fu particolarmente avventurosa, perché quando ci accorgemmo della deformità della coscia io mi trovavo con mia madre a una tre giorni con l’UNITALSI a Loreto. In quel periodo (dopo 11 mesi di Ilizarov) mi ero molto abituato alla mia condizione: camminavo con le stampelle, a volte facevo qualche passo senza, facevo sedere i miei amici sulla carrozzina e li spingevo come stessi usando un rollator. Ricordo che durante dei giochi con altri bambini caddi per terra: ero terrorizzato che qualche filo si fosse mosso p spezzato o qualche bullone si fosse svitato, ma per fortuna non accadde nulla di tutto questo: l’Ilizarov è molto robusto, ma il pensiero di avere tutto quel metallo che mi attraversava la gamba mi faceva sempre molta impressione. Quando tornammo a casa da Loreto, cercammo di contattare il mio ortopedico, ma riuscimmo solo a trovare la sua segretaria, da cui apprendemmo che si trovava in ferie alla Martinica, da qualche parte nel Golfo del Messico. All’ospedale di Argenta (dove intanto era diventato primario) i medici mi fecero fare una lastra, che dimostrò la deformazione del callo osseo del femore, ma dichiararono che nessuno di loro se la sentiva di operarmi. I miei genitori riuscirono ad ottenere il nome dell’albergo dove alloggiava il mio ortopedico e mio fratello, che aveva studiato francese alle medie, scrisse un messaggio che inviarono via fax. Riuscirono anche a telefonare all’Hotel, mio fratello chiese al telefono del Dott. Vasina; insomma, tanto fecero che alla fine arrivò la telefonata dell’ortopedico! Spiegammo l’accaduto, ci rassicurò e raccomandò che non mettessi il carico sulla gamba. Due giorni dopo il suo rientro in Italia ero in sala operatoria. Ho alcuni ricordi abbastanza vividi di quei caldissimi giorni tra fine giugno e inizio luglio, che trascorsi sul divano per lo più leggendo, facendo i compiti, guardando la televisione e ricevendo visite. Molti mi venivano a trovare, la qual cosa mi rendeva sempre molto felice: coi miei amici non volevo farmi vedere abbattutto, e del resto, ottenuta la rassicurazione dell’ortopedico, non avevo motivo di esserlo. Scherzavamo insieme mangiando anguria davanti a un ventilatore. Ogni tanto spruzzavo acqua fresca contro il ventilatore per sopravvivere alle temperature estive. Nell’inverno del 1997 avevo iniziato anche la fisioterapia, rivolta inizialmente alla mobilizzazione del ginocchio. Agendo con la chiave inglese sul meccanismo dell’Ilizarov, era possibile sbloccare uno snodo che mi consentiva alcuni gradi di mobilizzazione dell’articolazione. Inutile dire che dopo mesi di immobilizzazione e di allungamento, con conseguente stiramento dei legamenti, formazione di aderenze e pseudo-risalita della rotula, il dolore che provavo alla mobilizzazione era quasi proibitivo. E infatti riuscii a recuperare pochi gradi di flessione, senza ottenere un sostanziale miglioramento anche dopo la rimozione dei ferri, quasi un anno dopo. Continuai la fisioterapia per molti mesi, con l’obiettivo di aumentare gradualmente il carico e mantenere le masse muscolari. La mia fisioterapista in quel periodo era Lorenza, una persona con cui mi trovavo molto bene, quasi una seconda mamma: andavo volentieri da lei, anche se c’era sempre lo spettro del dolore per la mobilizzazione del ginocchio. Il giorno prima dell’inizio della prima media, in regime di Day Hospital, mi rimossero l’Ilizarov. Per qualche ragione, forse per indisponibilità dell’anestesista, iniziarono a sbullonare tutto l’apparato prima di avermi sedato. Non ho idea di quanto a lungo piansi, urlai e tentai di tenerli lontano dalla mia gamba, finché non si decisero ad addormentarmi. La mia sensazione è che i medici non avessero molta attenzione sul tema del dolore: spesso mi rassicuravano e dicevano che le manovre a cui mi opponevo non facevano male, atteggiamento che ritengo giusto, ma dopo anni di conoscenza e di relazione mi arrabbiavo molto con loro quando non riuscivo comunque a sopportare il dolore e avevo la sensazione che loro minimizzassero quello che sentivo. Sono anche consapevole che quello che per me era più disturbante non era il dolore fisico in sé, ma l’ansia che sentivo montare dentro quando qualcuno si avvicinava per mettere le mani sulla mia gamba. Questa ansia veniva scaricata molto sui miei genitori, che in parte riuscivano a capirmi e a rassicurarmi; ma ai medici questo aspetto non interessava. Iniziai la prima media con la gamba libera dai ferri ma prigioniera di un gesso, cosa che comunque era un bel cambiamento. Di gesso in gesso, di raggi in raggi, mi liberarono definitivamente intorno all’8 di dicembre, quasi 17 mesi dopo il montaggio dell’Ilizarov. Quando uno ha dieci anni, diciassette mesi sono una vita intera. Ero sicuramente molto cambiato. Se a tre anni la mia famiglia aveva affrontato per la prima volta la sfida del mantenere la normalità nella malattia, a nove anni sono stato io in prima persona ad affrontare il senso di quello che mi stava accadendo. E’ stato il periodo delle domande filosofiche ed esistenziali, del “Perché tutto questo?”, “Non è giusto!”, “Perché a me sì e agli altri no?”. Ho iniziato una lunga elaborazione razionale ed esistenziale che in effetti ad oggi non posso dire conclusa. In questo, mi hanno aiutato tutte le persone che ho incontrato, non necessariamente quelle a me più vicine. Seduto nella mia carrozzina, osservavo gli altri, quello che facevano, quello che dicevano, come si relazionavano coi miei familiari e con me. In silenzio, cercavo intorno a me delle risposte. Esprimevo anche a voce alta le mie domande, e piano piano mi accorgevo che le risposte preconfezionate che potevo ricevere non mi soddisfacevano mai del tutto, anzi, diverse volte mi facevano arrabbiare. Trovavo più conforto dalle cose che facevo e dallo stare con gli altri piuttosto che da quello che pensavo e dalle domande che mi ponevo in solitudine. Le persone da cui ho ricevuto di più sono state quelle che non scappavano da me, messe a disagio dalla mia stessa presenza o dai miei sfoghi. La cosa più importante non era quello che mi dicevano (rimproveri o rassicurazioni, spiegazioni o silenzi) ma il fatto che continuassero a starmi vicino nonostante tutto. Era importante per me constatare che non erano spaventate o disgustate dalla mia situazione, cosa che mi ha permesso di non esserlo a mia volta, ma piuttosto di accettare me stesso e quello che stavo attraversando.

Il secondo allungamento ha provocato nel mio fisico cambiamenti significativi, e non solo per il fatto che la mia gamba era diventata più lunga di 25 cm. La sensibilità del mio piede destro si era ridotta, per non dire annullata, per effetto dello stiramento dei nervi. L’avrei recuperata quasi completamente vari mesi dopo, ma nel frattempo parestesie e piccole fitte erano quasi all’ordine del giorno. Il numero di cicatrici sulla gamba era notevolmente aumentato, cosa che al momento mi preoccupava molto poco, ma che in seguito mi avrebbe dato un po’ da fare in estate al momento di scegliere i pantaloni corti. Le mie scarpe ortopediche furono enormemente trasformate: mentre prima avevo bisogno di un rialzo a destra di circa 20 cm, ora si rendeva necessaria una zeppa a sinistra di qualche centimetro. Sì, perché prevedendo la mia crescita ulteriore, il mio ortopedico si era messo avanti portando l’arto di destra ad essere più lungo del sinistro. Il cambiamento maggiore, tuttavia, era legato alla quasi immobilità dell’articolazione del ginocchio. Riuscivo a fletterlo di pochi gradi, quel tanto che mi permetteva di camminare con l’aiuto comunque del rialzo nella scarpa controlaterale per facilitare la fase di avanzamento del piede. Mentre prima dell’intervento riuscivo, nonostante l’artrodesi naturale di caviglia, a saltare e a correre, ora questi due movimenti erano diventati impossibili. La cosa sul momento non mi disturbava molto, così grande era il sollievo di aver “deposto” l’apparecchio. Si rese anche necessario adattare la bicicletta, perché non riuscivo più a pedalare. I miei genitori si rivolsero a un artigiano esperto nell’adattare mezzi per disabili; ne venne fuori un dispositivo piuttosto rozzo ma funzionale. Soltanto dopo il terzo allungamento, intorno ai miei diciotto anni, quasi per caso un mio zio si interessò alla questione e mise a punto uno snodo per la pedivella che rendeva la mia pedalata molto più fisiologica: dopo la sua morte mi sto ancora servendo del suo “brevetto”.

Dopo il secondo allungamento, potei godere di quattro anni di tranquillità, punteggiati da qualche ciclo di fisioterapia. Il successivo intervento venne programmato per l’estate tra la mia quarta e quinta ginnasio: avevo quattordici anni. Il mio ortopedico intendeva realizzare nello stesso tempo un intervento di scollamento delle aderenze e pulizia degli sfondati articolari del ginocchio, per consentirmi una maggiore mobilità, e il posizionamento del terzo Ilizarov questa volta solo sulla tibia, come era stato fatto quando avevo tre anni. Fui sorpreso, quando mi svegliai dall’anestesia, nel constatare che non avevo nessun Ilizarov: l’entità dell’intervento al ginocchio aveva indotto l’ortopedico a non fare altro, per darmi la possibilità di realizzare il massimo recupero possibile del movimento di flessione. Fu il ricovero più lungo di tutta la mia storia chirurgica: otto giorni. Benché pochi, a me sembrarono un’eternità. Il mio compagno di stanza, Enrico detto Umberto, fu per me un valido sostegno: ricordo che quando mi comunicarono la data ipotetica della dimissione iniziai a piangere appena i medici e le infermiere furono usciti dalla stanza. I miei genitori non c’erano, e fu lui a farmela passare senza troppi complimenti. Due anni dopo ci saremmo ritrovati come compagni di stanza nello stesso reparto ancora una volta, “per caso” (se vogliamo dire così): circostanza che ricordo con un misto di gioia e di stupore. Nei ricoveri che feci a partire dall’età dell’adolescenza, i compagni di stanza spesso ebbero ruoli importanti. Oltre ad Umberto, mi ricordo bene di Mario (protesi d’anca in attesa di tornare a ballare con sua moglie) e di un signore che mi insegnò a farmi la barba come si deve con schiuma e pennello. Durante il ricovero, ma soprattutto dopo la dimissione, iniziò il lungo percorso della fisioterapia. Già alla prima seduta, M., il mio fisioterapista, dichiarò che il mio ginocchio si faceva dare del “voi”. Recuperare l’articolarità fu un processo molto doloroso per me e molto faticoso per lui. Ci vedevamo molto spesso, in genere subito dopo la mia uscita da scuola. Pince-nez, fisico da buttafuori, ironia cinica con immancabili battute misogene e un interesse per l’omeopatia: in tutte le ore che passammo insieme imparai a conoscerlo e a stimarlo. Il risultato finale fu che riconquistai una flessione attiva di circa 50 gradi e passiva di circa 70: abbastanza per migliorare la mia motricità e il mio schema corporeo, non abbastanza per fare a meno dell’adattamento della bicicletta e per superare le limitazioni negli sport. Ma la cosa non mi preoccupava: ero più che contento di aver concluso un altro pezzo di percorso e di aver comunque migliorato la mia situazione.

Il terzo e ultimo ciclo di allungamento con l’apparato di Ilizarov lo iniziai nell’estate del 2004, tra il mio terzo e il mio quarto anno di liceo classico. L’allungamento finale fu di circa 17 cm e interessò solo la tibia; sarei tornato a fare a meno di carrozzina e stampelle circa 1 anno dopo. E’ il periodo più recente, ma è anche quello di cui conservo meno ricordi, forse perché da “veterano” non mi faceva quasi più impressione nulla, o forse perché ero interamente assorbito dallo studio, che mi piaceva molto, dalla partecipazione al progetto del Model Europen Parliament prima a Pescara e poi a Copenaghen (ringraziando mia madre per avermi accompagnato prendendosi le ferie), dai campeggi organizzati dal seminario di Modena, dallo studio del pianoforte, dagli amici, dall’impegno preso a suonare l’organo alle celebrazioni parrocchiali, per cui dovevo letteralmente arrampicarmi lungo la strettissima scala a chiocciola e servirmi di uno sgabello appositamente realizzato da mio padre su cui era scritto con pennarello nero indelebile “Non spostare. Serve a Paolo per suonare”. Insomma, quest’ultimo allungamento, nonostante avesse richiesto comunque un intervento fuori programma legato alla rimozione troppo precoce di alcuni fili, non mi squassò più di tanto. Ricordo con affetto le mie due fisioterapiste, quella che mi trattò durante i mesi dell’Ilizarov e quella che mi riabilitò dopo la rimozione dell’ultimo gesso. Il risultato finale fu un allungamento per eccesso dell’arto di destra di alcuni centimetri, che si sarebbe solo in parte ridimensionato con gli ultimi anni di crescita, per cui ancora oggi porto un rialzo interno alla scarpa sinistra di circa 2.5 cm. Inoltre, la sensibilità del piede, che puntualmente scompariva durante l’allungamento per poi ristabilirsi alcuni mesi dopo, questa volta non si riportò al livello precedente, ma rimase lievemente deficitaria. Per finire, nonostante la riabilitazione durante e dopo l’allungamento, la flessione del ginocchio si ridusse a un massimo di circa 45 gradi. Nel complesso, per me fu una relativa delusione, perché non percepii un miglioramento della mia condizione precedente, ma piuttosto un peggioramento (relativo alla sensibilità del piede e alla mobilità del ginocchio). Questa delusione, unita all’avvicinarsi della conclusione del lunghissimo percorso sanitario e degli anni di liceo, fu l’inizio di una profondissima crisi personale, di cui impiegai anni per diventare davvero consapevole. Il percorso ortopedico previsto, in realtà, non si era ancora concluso: secondo il mio ortopedico era opportuno effettuare, al termine della crescita, un intervento di artrodesi della caviglia destra per migliorare la stabilità. Da anni sapevo della necessità di questo intervento, di cui non sentivo la necessità (la mia caviglia non era mai stata mobile), ma che ero portato a condividere sia per la fiducia verso l’ortopedico sia per una forte resistenza ad accettare che il percorso sanitario si fosse ormai concluso e che i limiti residui me li sarei portati avanti per tutta la vita. Che cosa avrei fatto adesso? La domanda che tutti gli adolescenti si pongono alla fine della scuola per me si caricava di maggior angoscia perché sentivo che non ero pronto ad una vita “normale”. Il “mio” mondo era un mondo duro, difficile, ma di cui conoscevo le regole e di cui sapevo cogliere e apprezzare i momenti di bellezza… come potevo pensare di lasciarmi tutto alle spalle per vivere come gli altri? Ci misi, e ancora ci sto mettendo, anni per elaborare questo vero e proprio lutto. Una volta, parlando con un amico che aveva attraversato anche lui nell’infanzia un periodo lungo di malattia, dissi: “Mi sento come un carcerato che è appena uscito di prigione. Non riesco ad abituarmi a vivere nella società, il mondo in cui sono abituato a vivere non è questo”. Il mondo del malato e quello del sano erano, e in parte ancora restano, inconciliabili. Come potevo pensare di integrarli, come potevo vivere secondo i parametri dei sani senza sentire che stavo tradendo una parte importante di me, una parte che era stata “affinata” dalla sofferenza e che per sopravvivere aveva imparato a vedere e a gustare il mondo in modo diverso, secondo principi e priorità che non mi sembravano applicabili nella mia nuova situazione di vita? Aspetti vitali per la crescita e l’ingresso nell’età adulta, in primis la scelta di un orientamento professionale, mi sembravano questioni scarsamente rilevanti. La capacità di apparire, di presentarsi bene per farsi accettare in un contesto lavorativo erano cose a cui non avevo mai dato importanza. L’interesse per le ragazze fino a quel momento era affiorato in più riprese, ma percepivo l’idea di una relazione come di qualcosa che non mi riguardasse. Assecondai il mio senso di distacco verso il mondo scegliendo di entrare in Seminario a Modena dopo il diploma. Col senno di poi mi sembra che sia stato un modo per rimandare il problema, quello che definirei la necessità di affrontare un “radicale nuovo inizio”. Al terzo anno di seminario, quando la scelta verso la consacrazione doveva assumere una dimensione pubblica, mi rifiutai di andare avanti. Due sacerdoti furono decisivi per sostenere la mia scelta di uscire dal seminario, scelta difficile da prendere in un ambiente “assetato” di vocazioni. Non sapendo bene che cosa fare, ripresi da dove avevo lasciato: l’idea di iscrivermi a Medicina era sempre stata nella mia mente fin dalla scuola media, ma non l’avevo mai presa troppo sul serio. Non avendo altro, in quel momento decisi di ripartire da lì. Nei giorni precedenti all’inizio delle lezioni del primo anno mi sottoposi all’intervento di artrodesi di caviglia: tornai dopo cinque anni nello stesso reparto di ortopedia dell’ospedale di Argenta, che frequentavo ormai da dodici anni, con la leggerezza di chi sa che non ci tornerà più. In reparto fui accolto come il figliol prodigo che tornava a casa. In sala operatoria mi sorpresi una volta di più nell’accorgermi che tanti mi conoscevano anche se io non li riconoscevo, vuoi per le mascherine vuoi perché per la maggior parte del tempo ero stato sotto anestesia. In tutti i precedenti interventi avevo accolto con soddisfazione l’anestesia generale, perché non volevo essere assolutamente cosciente durante l’intervento. Questa volta, quasi per curiosità, chiesi o accettai l’anestesia sottodurale, dopo essermi naturalmente assicurato che non sarebbe stata obbligatoria la cateterizzazione. Qualche tempo dopo, incontrando una mia prof del Liceo mentre camminavo ancora con le stampelle, le raccontai che avevo fatto l’ultimo intervento del mio percorso e con un po’ di delusione o quasi con vergogna aggiunsi che non c’era più altro da fare. Ricordo che lei mi disse: “Bene, non è il caso di continuare a torturarsi”. Stavo forse ricominciando a guardare avanti. 

Alcune persone mi hanno chiesto in varie riprese che relazione c’è tra l’esperienza che ho avuto e la mia scelta di fare medicina. Domanda più che giustificata, a cui sono sempre stato restio a dare una risposta. Credo in effetti che ce ne siano molte. Ne darò una, quella che ho capito e che mi sento di condividere. Ho sempre pensato alla medicina come ad una modalità che permette ad una persona, il medico, di non fuggire, ma anzi di stare vicino, senza impazzire, ad un’altra persona che soffre, il paziente, per affermare che il dolore e la malattia non hanno l’ultima parola. Senz’altro è anche la via che per ora ho trovato per stare vicino al “paziente che è in me” cercando di non giudicarlo, di non soffocarlo e di non farmi soffocare, di non vergognarmi di me né di lui. Può darsi che sia questa la via per gettare un ponte sull’abisso che è dentro e fuori di me fra il mondo del malato e il mondo dei sani

Storia del dottore